Viviamo come se la fragilità fosse un’eccezione, e non la regola che ci tiene insieme. Ma, come osservava Arnold Gehlen, siamo Mängelwesen, esseri strutturalmente carenti, nati senza difese né certezze. È da questa mancanza originaria che nasce il bisogno dell’altro, la costruzione del “noi”, la responsabilità condivisa. È questa verità dimenticata ma viva, troppo spesso sepolta dal rumore dei giorni, a custodire il segreto di ogni legame autentico: la memoria sommessa della nostra vulnerabilità che ci rende prossimi ancor prima che simili.
Hans Jonas l’ha chiamata etica della cura: una responsabilità che non nasce dal potere, ma dalla somiglianza che ci lega. E allora, forse, la vera città non è quella costruita sulla contrapposizione tra un io e un tu. Una simile separazione, in fondo, non appartiene al senso più profondo del bios. Né lo è quella fondata sul vantaggio delirante dell’apologia neoliberale e del sogno transumano.
È piuttosto quella che sa rallentare, fiduciosa, per accorgersi, per farsi carico di chi resta indietro, dentro un progetto di inclusione definitiva e non ideologizzata. Non ci resta che ripartire da qui: dal coraggio disarmato di vedere, nell’incompiuto che ci somiglia, un riflesso del nostro stesso volto, una cellula di vita pulsante che ci cammina accanto, chiamata con noi a un destino comune.