C'è una pietra dura, nel cimitero di Tubinga, che non chiude ma dischiude. È la tomba del filosofo Ernst Bloch, e su quella lastra due frasi scolpiscono un’intera visione del mondo: “Pensare significa oltrepassare” e “L’anelito dell’uomo ad essere realmente uomo”. Una delle due risale al suo capolavoro, Il principio speranza; l’altra fu incisa in seguito, quasi a fare da eco, nell’anno in cui scomparve Karola, la sua compagna di vita.
Bloch amava la parola “futuro”, ma non come miraggio evasivo o come rifugio cosmico. L’avvenire che urge è un appello alla pienezza del presente, anche quando questo tempo è opaco, scorato, contraddetto. La speranza, per lui, non è una fuga, ma un atto rivoluzionario: un guardare oltre che parte da dentro, dalla crepa viva dell’oggi.
Un tendere a qualcosa che ancora non è, ma che vibra già nel desiderio, nell’arte, nel sogno, nell'inquietudine. Come non sentire tutto questo risuonare anche tra le pietre secolari di Orvieto, città sospesa sul tufo e sul tempo? La Rocca, il Pozzo, il Duomo stesso – nella loro immobilità apparente – sembrano fatti per trattenere, quasi per provocare, visioni ulteriori.
E se oggi avessimo il coraggio di leggere Bloch anche come una proposta politica, civile, urbana? Uno slancio vitale che non sia rifugio intimo, ma come forza di trasformazione sociale, come movimento che interroga il presente con le lenti del coraggio, non come orpello retorico, ma come urgenza etica e motore di immaginazione pubblica.
Nella sua summa filosofica, Il principio speranza – tradotta in italiano solo nel 1994 grazie a Remo Bodei e Stefano Zecchi – Bloch scrive che “il nostro vero volto non si è ancora disvelato”. È una frase che inquieta e consola insieme: dice che non siamo conclusi, che la nostra identità più autentica ci viene incontro da un altrove che ci chiama a uscire da noi stessi.
Anche Orvieto, come ogni comunità, ha bisogno di questo “oltre”: di affrancarsi dalla nostalgia sterile, dalla bava rancorosa del male, dalla trappola di pensarsi già definitiva. Ha bisogno di coltivare utopie, non fughe romantiche, ma come spazi generativi, campi da dissodare, orizzonti da raggiungere.
Bloch sapeva bene che l’uomo porta dentro un “vuoto primigenio”, una mancanza. Ma è proprio quella fenditura dell’anima che chiama alla speranza: non come riempimento retorico, ma come giacimento da esplorare, come forza creatrice capace di incidere anche nelle pieghe della vita collettiva.
Ecco perché Bloch resta attuale. E ci interroga ancora oggi.