Si chiamava Hamid Badoui. È morto a 24 anni, impiccandosi con i lacci delle scarpe nel carcere di Torino. Aveva paura – una paura epidermica, un’angoscia ansimante – di essere deportato nel centro di detenzione di Shengjin, in Albania. Lì, dove l’Italia ha deciso di stipare, come si faceva con gli scarti umani nel secolo dell’abiezione coloniale, i migranti scomodi: corpi considerati impuri secondo la logica dell’ordine e della rimozione, lontano dagli occhi e dal cuore.
In quel luogo estremo dove l’umanità, giorno dopo giorno, si consuma e si spegne, soffocata tra psicofarmaci, attese interminabili e una disperazione atroce. Lì, dove per decreto si annulla la persona, nel nome di una religione politica primitiva, nutrita di paura e disciplinamento. Il suo gesto estremo, che non possiamo svilire riducendolo a un’icona, ci interpella profondamente. Perché svela ciò che molti sanno e troppi fingono di ignorare: i CPR sono spazi di detenzione amministrativa dove il diritto è sospeso, la lingua non serve e il corpo – l’unica cosa rimasta – viene gestito, sedato, reificato.
Succede a Shengjin, oggi emblema di un’esternalizzazione abietta e crudele. Ma accade anche a Gradisca d’Isonzo, dove si è già morti sotto custodia, in circostanze mai chiarite del tutto. Accade a Ponte Galeria, dove l’uso dell’isolamento e dei trattamenti farmacologici è stato più volte segnalato da operatori e garanti. È questa la geografia antropologica del disonore: una mappa che non si trova sui libri di scuola, ma che dovrebbe inchiodare ogni coscienza.
Il tutto avviene sulla base di accordi come quello tra Italia e Albania, firmati senza dibattito pubblico, che prevedono il trasferimento coatto di persone in cerca di protezione verso centri extraterritoriali, in evidente contrasto con i principi della Convenzione di Ginevra e del diritto d’asilo. Accordi che riducono le vite a variabili geopolitiche da dislocare, senza voce, senza volto, senza alcun contraddittorio.
Questa è la nuova frontiera. Del nostro governo. Quella che separa la dignità dalla sua negazione. Una politica migratoria che genera luoghi di tormento purulento. Una politica che non si limita a respingere, ma seppellisce lentamente, senza traccia, senza processo. Un re spogliato che primeggia nel girone degli ignavi. E noi? Noi che viviamo in città piccole, nei territori che ancora hanno memoria di umanità, possiamo davvero voltare lo sguardo?
Parliamone. Anche a Orvieto. Incontriamoci, confrontiamoci, creiamo uno spazio civile di ascolto e responsabilità. Perché ciò che è accaduto a Hamid, e accade ogni giorno in luoghi come Gradisca e Shengjin, ci riguarda da vicino. Parla di quale civiltà stiamo accettando, di quanto siamo disposti a cedere in nome di una sicurezza che non ci rende più giusti, ma miserabilmente ciechi, in una società dovel’unica legge sembra essere ormai quella imposta dalla sferza del manganello. Facciamo di questo dolore una domanda che ci smuove.