Il mondo a portata di mano
sociale

Basta analisi, servono progetti che uniscano

venerdì 16 maggio 2025
di Angelo Palmieri

C’è una parola che squarcia con prepotenza tra le pieghe della vita giovanile: malessere. Una parola che non urla, ma sussurra ovunque. Nei corridoi delle scuole, nelle chat silenziose, nei pomeriggi trascinati a scorrere vite altrui. Lo si avverte nei gesti alla moviola, negli occhi dalle pupille dilatate, in quel senso di vuoto passionale che abita troppi ragazzi. E non è solo una questione di età difficile: è il segno di contesti che si sono fatti patogeni, per davvero.

I luoghi abitati dai giovani – e qui il plurale è d’obbligo – sono corrosivi come l’acqua che scava la pietra: non danno più forma, ma logorano. Non identificano, dissolvono.

Famiglie disorientate, scuole troppo spesso schiacciate sulla performance, quartieri che non parlano più. E poi loro, i territori virtuali, che sembrano accogliere ogni cosa ma in realtà anestetizzano tutto: tempo, attenzione, autostima. Ambienti maledettamente diabolici – sì, il termine è forte, ma necessario – perché promettono connessione e generano separazione, evocano intimità e producono solitudine. Divisivi, a tratti esiziali. Eppure indispensabili. Ineludibili.

In questo scenario, la solitudine non è più un accessorio simbolico, ma si è fatta etica insolvente: promessa mancata, segnale di un fallimento collettivo, diffuso tra i giacimenti sorgivi, inascoltati, di una generazione che attende legami ma riceve silenzi.

E allora, che si fa?
Continuiamo a produrre diagnosi infauste, mappe analitiche del disagio, ricerche abilitate a frullare dati e numeri, scenari preoccupanti?
Certo, servono anche quelli. Ma oggi, più che mai, urge il tempo delle proposte.

Quanti convegni dalle mille brodolate di parole?
Quanti pannelli, slide, buone intenzioni evaporate entro sera?

Serve una politica che torni a scommettere su luoghi e legami.
Che apra spazi. Che promuova presenze.
Che finanzi progetti pensati con i giovani, non per i giovani.

E magari – diciamolo – senza passare sempre dalle solite associazioni o cooperative sociali.
Perché a volte l’innovazione non è nei bandi, ma negli occhi di chi sa restare accanto.

Una panchina in un parco ben curato – chi l’ha vista, ultimamente?
Un laboratorio in una scuola al pomeriggio.
Una figura adulta che non giudica ma resta.
Una casa delle relazioni che diventi fucina di amicizie solide.

A volte, la rivoluzione, possiamo anche chiamarla gentile, se non è troppo evocativa, comincia dalle piccole cose.
Ma va pensata, va programmata.
Non basta sperare. Occorre progettare.

 

 

 

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