Ci sono vite che non si accontentano di esistere: accadono. Lasciano incavi profondi nella coscienza collettiva ormai acquietata, non solo ricordi.
Pepe Mujica era così: non un personaggio, ma una presenza. Uno di quelli che, anche quando se ne vanno, restano. Perché non hanno mai cercato la scena: non attori goffmaniani, ma uomini interi, radicati nell’essenziale.
Se n’è andato senza clamore, com’era vissuto: tra le cose semplici, nella sua fattoria alla periferia di Montevideo. Più che una casa, era una dichiarazione etica, un gesto di coerenza radicale. Aveva 89 anni, ma sembrava appartenere da sempre a un tempo altro. Un tempo più umano, caleidoscopico come la vita vera: contraddittorio, fragile, irriducibile.
Non è facile parlare di lui senza scivolare in semantiche logore: “presidente povero”, “guerrigliero redento”, “filosofo contadino”. Ma Mujica si sottraeva alle enfasi retoriche e alle connotazioni confezionate. È stato, piuttosto, una tensione generativa. Un uomo che ha attraversato il buio del carcere e ha scelto, con radicale semplicità, la luce della mitezza. Che ha abitato i luoghi del comando senza spegnere il suono antico della terra sotto i piedi.
La sua vita era noumeno, non apparenza: inchiodata con ostinazione al fango sacro delle povertà del suo popolo. Non viveva il potere come superficie, ma come peso, come carne, come debito. Ha optato per la sobrietà come forma autentica e non celebrativa di resistenza. Non ha mai chiesto per sé ciò che avrebbe negato a un contadino dell’Uruguay. Era questo il suo modo di abitare il mondo: attraversarlo con dignità e rispetto.
La sua eresia più radicale? Non rinunciare mai a sé stesso per ottenere qualcosa in cambio. Non scendere a patti. Non smettere di credere che la politica, se non serve a sollevare i più deboli, diventa soltanto una recita aspra, logorroica e — in fondo — crudelmente sterile. Diceva, con voce dolce ma ferma, che “l’utopia serve per camminare”.
La sua utopia aveva il passo corto di chi conosce le stagioni. Non c’era spazio per il dogma: solo ricerca, solo speranza attiva. Tredici anni di prigione, molti dei quali in isolamento. Ma mai vittimismo. Solo una consapevolezza granitica: la libertà vera è non permettere al dolore di piegarti, di ridurti a una postura genuflessa, in ritirata dal mondo. Mujica ha trasformato la sofferenza in parola sobria, in gesto costruttivo, in attivismo per e con gli altri.
Ci ha mostrato che la libertà è possibile. Che si può restare fedeli a sé stessi anche dentro le stanze del potere. Che nulla — davvero nulla — può essere scambiato con l’anima. La poltrona, il titolo, il successo: orpelli di una simbologia capitalistica che svuota, non riscatta. Mujica ha vissuto come si lotta, ha governato come si serve. E in questo sta la sua eredità: nell’inversione silenziosa dell’ordine delle cose. Di Mujica sentiremo la mancanza. Ma, più ancora, sentiremo la mancanza del mondo che, con la sua vita, ha saputo evocare.
Pepe, grazie.