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Gaza: il pane negoziato, il sangue dimenticato

lunedì 12 maggio 2025
di Angelo Palmieri

C’è una fame che uccide più delle bombe. Una privazione organizzata, studiata a tavolino, utilizzata chirurgicamente come moneta di scambio e arma sottile ma ignominiosa. È la fame che stringe la gola a Gaza, mentre l’umanità intera osserva da dietro un vetro appannato lo stillicidio di una tragedia che si consuma tra polvere piretica e sangue acre. Mentre si annunciano piani umanitari come fossero carezze gelide e non l’estremo tentativo di salvare la bianca maschera della vergogna, la sola verità che arde è questa: Gaza è al digiuno forzato. Anche chi ostenta imbarazzati tentativi di assistenza umanitaria sa che tutto questo non basterà. I piani tracciati a porte chiuse parlano di aiuti appena sufficienti per una parte della popolazione, mentre il resto continua a lottare con la fame tra rovine che odorano di fine e disperazione.

Non è un errore di calcolo, è una scelta politica avvizzita e mefitica. Nei corridoi del potere si sussurra senza troppi giri di parole: meno bocche da sfamare, meno problemi da risolvere. Così, si torna a parlare di “trasferimenti umanitari”, eufemismo stanco che nasconde l’antico spettro della deportazione. Deportazione mascherata da soluzione umanitaria. Una strategia antica, ignobile, eppure riproposta sotto gli occhi di una comunità internazionale sempre più colpevolmente muta, pavida, complice. Nel frattempo, il piano israeliano prevede la creazione di quattro «siti sicuri» a sud della Striscia, capaci – in teoria – di accogliere fino a due milioni di persone. Ma a quale prezzo? L’UNICEF parla senza giri di parole: gli aiuti sono usati come esca per forzare il trasferimento dei civili.

È la carestia che si trasforma in ricatto, è il pane che si offre con una mano mentre con l’altra si impone la ritirata, lo sradicamento, la cancellazione di un popolo. La Striscia di Gaza, ridotta a un inferno dantesco di detriti e corpi in putrefazione sepolti sotto le macerie, si è trasformata in una prigione a cielo aperto, dove si muore prima nella carne e poi nella dignità. E allora sì, lo si gridi forte: “Se questo è un uomo…” Ma il mondo, ottuso e vigliacco, ha smesso di ascoltare. Nel nuovo teatro della tragedia si muovono anche le ombre delle potenze mondiali. L’ennesima visita del presidente Trump in Arabia Saudita, Emirati e Qatar si annuncia più come un affare di geopolitica che un vero tentativo di pace. È solo una questione di logistica, una postura populista dal sapore rancido di sovranismo, non certo di umanità.

Si organizzano rifornimenti come se fossero esercizi di ingegneria militare, si parla di sicurezza più che di soccorso. Intanto, il fallimento del molo galleggiante costruito un anno fa dagli Stati Uniti, costato 230 milioni di dollari e rimasto operativo meno di due mesi, resta il simbolo grottesco di una strategia estera vigliacca e incapace di affrontare le proprie disfatte. A Gaza i bambini non giocano più. Nei loro disegni non ci sono case, ma bunker; non ci sono campi di fiori, ma cumuli di frammenti. Le ninnenanne si confondono con il fragore roboante delle esplosioni e i sogni hanno il sapore amarissimo della denutrizione. È la devastazione psicologica di un’intera generazione, cresciuta tra il trauma e la perdita. Hanno occhi già vecchi, prosciugati di speranza, consumati da una paura buia e raggelante che non conosce alba.

E mentre il Nord della Striscia è già una terra fantasma, a Rafah si consuma l’ennesimo scontro. Hamas parla di “feroci combattimenti”, Israele risponde con bombardamenti mirati che, nella pratica, continuano a colpire soprattutto i civili. Si perisce tra i tendoni dei campi, lungo le banchine deserte, sui selciati ridotti a polvere. Si muore anche di sete, nell’indifferenza vischiosa e immobile delle diplomazie, che galleggiano sul dolore come relitti senz’anima. Secondo le stime ufficiali, i morti superano le cinquantamila unità. I feriti sono oltre centomila. Ma ormai questi numeri non fanno più notizia. Nel cuore dell’Europa e dell’Occidente democratico, i leader recitano il loro copione di equilibrismi ipocriti.

Nessuno ha il coraggio di nominare per quello che è la catastrofe di Gaza: un crimine storico, consumato nel disinteresse generale, con la complicità morale di chi si ostina a parlare di “difesa legittima” mentre un popolo intero viene affamato, deportato, cancellato. La storia chiederà conto di tutto questo. Ma sarà un giudizio tardivo. Perché Gaza, oggi, è già il nostro fallimento più grande. E tra le macerie, nella polvere intrisa di sangue, ancora una volta qualcuno sussurra ciò che resiste: dignità. Quella che noi, comodi e sazi, abbiamo dimenticato. E da Roma si alza un appello che sa di Vangelo più che di diplomazia: un invito alla pace disarmante, alla costruzione di ponti e non di barriere. Staremo a vedere se quel messaggio saprà farsi storia e coraggio. Perché a Gaza, intanto, il sangue continua a gridare più forte del silenzio del mondo.

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