«Sa, a volte penso che l’unico posto sicuro sia sotto le coperte, con la testa ben nascosta. Fuori c’è troppo rumore. Dentro… è anche peggio».
Aveva gli occhi bassi e le parole che tremavano sulle labbra, come se chiedere aiuto fosse già un tradimento della sua sofferenza. Ho atteso in silenzio, senza invadere. Poi gli ho chiesto piano: «E se provassimo a non mettere a tacere quel rumore? Se provassimo, insieme, ad ascoltarlo?».
Così, quel giorno, ho imparato che il dolore non si rimuove come polvere da un mobile. Va attraversato. Con passi incerti, a volte tornando indietro, a volte inciampando. Ma si attraversa.
La malattia dell’anima è un passaggio obbligato del vivere. Non è uno scandalo, né un inciampo imprevisto. È la piega oscura e necessaria del cammino umano, quella che ci riconsegna alla nostra patria perduta: la fragile, irriducibile umanità.
Eppure, troppo spesso, a questo passaggio ci presentiamo armati solo di farmaci e di astratte teorie, dimenticando – come ci ricorda Eugenio Borgna – che il dolore psichico non si lascia catturare nelle gabbie fredde di un’astrazione ideologica. Non si cura con la distanza, né si placa con formule che pretendono di spiegare ciò che può solo essere accolto.
Ci sono mali che nessuna medicina sa toccare, perché certe ferite chiedono altro: domandano la presenza viva di una voce che spezzi l’afonia dell’assenza, la forza gentile di una parola che non tenti di guarire a ogni costo, ma sappia restare accanto, in punta di piedi, come si sta di fronte ad un mistero.
Sono i sussurri veri, il farmaco dimenticato.
Non pretendono di risolvere, ma si posano lievi come mani calde sulla sofferenza.
Parole che si fanno sentieri tra le colline più spoglie, ponti gettati sopra abissi di solitudine, balsami che curano l’anima con la sola forza di esserci.
"Resto qui. Anche se non so come salvarti, non me ne andrò".
Forse è proprio questo il miracolo più alto: non la guarigione immediata, ma il ritorno ostinato e silenzioso della vita tra le incrinature.
E scoprire, con tremore e stupore, che siamo tutti in cerca di una cura, mendicanti di senso sotto cieli che non sempre promettono bonaccia.
Così, tra un passo e l’altro, nel fragile equilibrio tra vertigine e salvezza, impariamo che a volte basta una mano leggera posata sull’inquietudine di un’anima per ricucire l’invisibile.
E nel tempo in cui la voce si spezza e la distanza sembra invalicabile, c’è ancora chi sceglie di esserci.
Senza fretta, senza clamori.
Con la discrezione di chi comprende che la vicinanza non sempre ha bisogno di parole.
Con la forza silenziosa di una presenza che non reclama, ma custodisce.
Un’intuizione che trova risonanza nelle pagine luminose di Eugenio Borgna, maestro nell’arte della cura come prossimità e umanità accolta.