C’è un silenzio che non consola e non protegge. È il silenzio di una città che ha smesso di domandarsi cosa significhi crescere. Orvieto, colta e verticale, continua a contemplarsi nello specchio delle sue cartoline, ma resta inospitale per chi ha meno di quindici anni.
Non c’è un cortile vivo, una biblioteca calda, uno spazio che mescoli gioco e pensiero, parola e corpo, relazione e respiro. Solo qualche altalena scolorita, due scivoli di plastica, panchine consumate. Il vuoto, poi. Un vuoto pensato, perché ciò che non si progetta è già stato abbandonato.
Orvieto non è territorio per l’infanzia. E neppure per l’adolescenza.
È un centro urbano che invecchia senza immaginare, che amministra senza interrogarsi, che vive di slogan mentre delega la cultura dell’infanzia a qualche rassegna occasionale o ai “soliti noti”, bravi a intercettare contributi, ma incapaci di costruire villaggi.
Perché è questo che manca: un villaggio.
Un luogo sociale e simbolico che riconosca ai bambini e ai ragazzi lo statuto di cittadini presenti, non di futuri contribuenti.
A chi appartiene oggi questa città? A chi la attraversa frettolosamente tra un parcheggio e una scadenza? O anche a chi cresce, inciampa, cerca uno sguardo, pone domande scomode? I bambini non sono il domani, sono l’oggi che ci mette alla prova. Ma qui nessuno sembra voler rispondere.
L’attuale amministrazione vive di manutenzione dell’esistente, di burocrazia che neutralizza, di visioni a bassa risoluzione. L’assessorato alla cultura tace. Quello al sociale si sottrae. La retorica, quando si affaccia, è senza vergogna: proclami vuoti, promesse in loop, zero investimenti strutturali. E mentre le parole si gonfiano, i bambini si sgonfiano: nella noia, nell’apatia, in un digitale che anestetizza.
Le famiglie lo sanno: il centro storico è inaccessibile ai più piccoli. Le frazioni sono ridotte a dormitori, prive di presidi educativi, spoglie di segni. In certi casi, qualche bambino sembra nemmeno esistere all’anagrafe della comunità: nessuno lo conosce, nessuno lo accompagna. Nessuno lo vede.
Questo è il punto.
L’invisibilità come cifra dell’infanzia orvietana.
Assente nei bilanci, rimossa dalle priorità. Perché investire su chi non vota non conviene. Meglio parlare di bambini in occasione delle feste, in qualche comunicato. Poi si torna a governare l’ordinario, che però è già sfaldato.
Ma basterebbe poco per voltare pagina: una biblioteca diffusa nei quartieri, una palestra aperta anche il sabato, un orto urbano in rete con le scuole, un centro infanzia degno di questo nome, una scuola di musica che non sia per pochi. Non è un problema di soldi, ma di scelte. E il coraggio, qui, sembra essere la risorsa più scarsa.
Uno spazio pubblico che non scommette sull’infanzia si spegne due volte: nei numeri e nella speranza. Senza bambini, Orvieto non è solo più vecchia: è più sola, più fragile, più ingiusta.
Siamo ancora in tempo per cambiare. Ma serve una politica che ascolti, una cultura che includa, una comunità che si lasci interpellare. Non ci salveranno i monumenti, se dimentichiamo le persone. E tra queste, i bambini sono i primi da ritrovare.