C’è un campetto abbandonato a Sferacavallo, dove le erbacce crescono alte come speranze disattese e l’argilla si spacca sotto il sole. Ma proprio lì, dove gli adulti vedono solo incuria e dimenticanza, tre bambini, Karim, Elias e un amico dal sorriso largo, si chinano, si sporcano le mani, giocano. Ricreano. Con la forza fragile dei piccoli, impastano l’argilla come fosse futuro, danno un nome nuovo a uno spazio dimenticato: il Rifugio delle Lame Oscure. È un nome strano, forse, ma dentro ci sta tutto: la paura, la fantasia, il coraggio di chi sa abitare anche il buio per trasformarlo in casa.
Abbiamo bisogno di maternità, oggi. Di grembi profondi e senza giudizio. Di sguardi che accolgono e non pesano. Di un liquido amniotico sociale che ci rigeneri. Di mani che accarezzano e non calcolano. Abbiamo bisogno di credere, come quei bambini, che anche l’abbandono può diventare rifugio. Che anche ciò che è spoglio può farsi soglia. Che le lame, quelle invisibili che ogni giorno ci attraversano, possono perdere il loro potere se condividiamo la luce, se costruiamo ripari insieme, se accettiamo di essere vulnerabili e insieme forti.
Quel campetto, oggi, è più che un gioco: è un atto profetico. È maternità incarnata. È un’architettura affettiva che nasce dalla polvere. Perché la speranza, come i bambini, non si annuncia con rumore, ma con mani piccole che ricreano il mondo dove gli adulti si erano arresi.