politica

Riace, il paradosso del simbolo. Quando l'utopia perde il contatto con la terra

giovedì 9 ottobre 2025
di Angelo Palmieri

Secondo i dati ufficiali di Eligendo, a Riace, piccolo comune calabrese un tempo divenuto modello internazionale di accoglienza, il candidato di centrodestra Roberto Occhiuto ha ottenuto oltre il 70% dei consensi, contro il 29,6% raccolto da Pasquale Tridico, espressione del campo progressista. È un dato che colpisce e, al tempo stesso, conferma una costante che da anni attraversa il voto nelle aree interne del Sud: una progressiva mutazione del consenso che non si spiega soltanto con la narrazione dominante o con la stanchezza dell’elettorato.

C’è infatti qualcosa di più profondo, quasi antropologico, che riguarda il rapporto tra radicamento, rappresentanza e memoria collettiva. Il percorso che aveva incarnato la possibilità concreta di una convivenza solidale grazie all’impegno di Mimmo Lucano, oggi restituisce un segnale opposto, o forse complementare: il bisogno di tornare alla concretezza, al quotidiano, al “noi” perduto.

Quando un’esperienza nata dal basso diventa emblema nazionale, smette di appartenere al luogo che l’ha generata. Riace, da collettività viva, si è trasformata in metafora e come tutte le metafore ha perso il calore delle voci che l’avevano resa possibile. Non è la destra ad aver conquistato quel luogo-simbolo: è la sinistra, o ciò che ne resta, ad aver smarrito il legame con la vita dei luoghi.

Lucano non era più lì, e non per scelta tattica. La sua parabola – tra processi, isolamento e riscatto europeo – ha sottratto al paese la presenza fisica e simbolica del suo “noi”, lasciando spazio a un sentimento di abbandono. Quando il leader diventa figura nazionale o europea, anche se amato, cessa di essere “uno di noi”: la comunità si sente tradita, o almeno orfana.

A ciò si aggiunge un altro elemento non trascurabile: la candidatura di Pasquale Tridico, uomo di indubbia competenza ma poco radicato in quel tessuto umano e affettivo che definisce la Calabria profonda. Il territorio non vota solo per convinzione ideologica, ma per appartenenza sensoriale: riconosce l’odore delle case, il passo nelle piazze, la voce nelle feste di paese. Tridico non poteva percepire il grido sommesso del cambiamento, quel bisogno di prossimità che, nelle periferie, si traduce in una richiesta di presenza concreta.

Eppure, dietro questo voto si nasconde anche un’altra costante, sottile ma potente: la paura dell’accoglienza. Non dell’immigrato in sé, ma del modello di convivenza che Riace aveva rappresentato, capace di ribaltare la logica vittimaria con cui troppo spesso si racconta la migrazione. Quel modello, pur con i suoi limiti, restituiva dignità, autonomia e reciprocità. Per questo faceva paura: perché mostrava che un’altra convivenza era possibile, mettendo in crisi un ordine sociale fondato sulla distanza e sul sospetto.

E tuttavia, nonostante il tempo trascorso e lo smantellamento di quell’ esperienza, Riace conserva ancora oggi un 7,8% di popolazione straniera residente, pari a 139 persone su 1.776 abitanti (dati ISTAT, 1° gennaio 2024). Pochi, si direbbe, ma in realtà sufficienti a testimoniare la resilienza di un modello che non è stato cancellato del tutto. È il residuo concreto di una visione: la traccia viva di un’utopia che, pur ridimensionata, ha lasciato nel tessuto sociale un segno duraturo di convivenza e di relazioni.

Il borgo, dunque, non si è spostato "a destra": si è spostato verso la terra. Ha chiesto di tornare a contare, di non essere più un mito da rivista internazionale, ma un paese vero, con problemi veri, desideroso di sentirsi di nuovo protagonista. Il voto, in questa prospettiva, non è una smentita dell’utopia dell’inclusione reciproca, ma una richiesta di radicarla di nuovo nella realtà, di restituirla ai volti, ai nomi, alle mani. Perché nessun sogno, per quanto nobile, può sopravvivere se dimentica il terreno da cui è nato.

 

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