"Ali Rashid non c'è più. Ma se avremo il coraggio di restare scomodi, allora non sarà andato via davvero"

Ali Rashid era un uomo che non chiedeva ascolto: lo prendeva. Perché Ali aveva dentro la forza rara di chi non ha mai preteso di convincerti, ma chiedeva che tu capissi. È stato tante cose. Il deputato. Un ruolo che ha ricoperto con la serietà di chi sa che non basta essere dentro le istituzioni per trasformarle, ma bisogna ogni giorno ricordare loro chi resta fuori. È stato uomo, figlio e padre, e questa verità, che in altri si dice per affetto, in lui era politica: perché nel suo sguardo sul mondo c’era si il peso del passato ma sempre anche la responsabilità del futuro, quella che si costruisce nel linguaggio, nell’esempio, nel non cedere mai al più facile dei compromessi.
Ma Ali Rashid è stato soprattutto ciò che la nostra memoria politica, spesso troppo breve e selettiva, fa fatica a nominare: un uomo della terra palestinese. Non nel senso romantico o pietoso che si riserva agli esuli, ma nella sua interezza incarnata. Ali portava la Palestina non come una ferita da esibire, ma come una grammatica del mondo. Non come tragedia, ma come condizione storica, culturale e rivoluzionaria da attraversare con dignità.
Con lui si potevano affrontare discorsi che in molti ambienti, sopratutto in provincia sembrano far paura: la decolonizzazione, per esempio. Non quella delle conferenze, ma quella che comincia dal togliere il dominio dalle parole, dal mettere in discussione le mappe, i canoni, i modelli di cittadinanza. Con Ali si parlava del linguaggio, sì, e non come forma, ma come confine politico. Sapeva che le parole sono munizioni o carezze, che sono armi o ponti, e per questo sceglieva le sue con la cura chirurgica di chi sa che può essere frainteso e per questo non si concede il lusso di esserlo.
Con Ali si poteva parlare anche del pensiero. Quello che non si accontenta delle opinioni ma pretende domande. Non “che cosa pensi?”, ma “da dove lo pensi?”. Sapeva che l’universalismo europeo spesso è un travestimento del dominio, e ci ha obbligati a chiederci che cosa resta fuori da ciò che chiamiamo ‘mondo’. Per questo ascoltare i suoi interventi pubblici poteva risultare faticoso. Ma era la fatica giusta. Quella che non ti lascia nella comodità delle tue idee, ma ti spinge più in là, dove comincia il reale.
Eppure, tra tutte le cose che è stato, ce n’è una che oggi ci stringe più di tutte: Ali Rashid è stato un alleato degli oppressi. Sempre. Non per strategia, non per ideologia, ma per natura. Stava dalla parte giusta prima che diventasse popolare, e spesso anche quando era pericoloso. Ha difeso i migranti quando erano solo numeri nei telegiornali. Ha difeso i diritti dei popoli colonizzati quando la sinistra stessa faceva finta di non vedere. E non ha mai smesso di ricordarci che la solidarietà non è una carezza: è un atto di lotta quotidiano.
Oggi, mentre il mondo continua a farsi il conto dei morti e a ignorare i vivi, sentiamo quanto ci mancherà la sua voce. Non una voce urlata ma una voce che attraversava, che perforava le zone grigie e ci costringeva a scegliere.
A nome del Partito Democratico di Orvieto, lo ricordiamo così: come un uomo che ci ha insegnato a disimparare ciò che credevamo neutro. Che ci ha indicato la necessità di restare inquieti. Che ci ha lasciato in eredità un compito difficile, ma non impossibile: fare della politica un atto di memoria attiva, fare dell’alleanza una pratica quotidiana, fare del dolore degli altri una responsabilità nostra.
Ali Rashid non c’è più. Ma se avremo il coraggio di restare scomodi, allora non sarà andato via davvero. Che la terra, la sua terra, gli sia leggera. Ma che il suo pensiero, il suo esempio, il destino del suo popolo restino pesanti su di noi.
Partito Democratico di Orvieto
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