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"I giovani non appartengono a una tessera. Né di destra, né di sinistra: appartengono al nostro futuro"

martedì 30 settembre 2025
di Angelo Palmieri

Qualche giorno fa ho partecipato a un incontro sulla devianza minorile promosso dal Rotary Club Orvieto. Ho ascoltato genitori, insegnanti, amministratori. Ho apprezzato molti interventi, ma non posso tacere: la politica cittadina appariva dimezzata. Quando parlo di un’opposizione evaporata, non intendo dire che non ci fosse nessuno, ma che la partecipazione fosse troppo scarsa rispetto alla gravità del tema.

E lo dico con dolore: anche la Chiesa, in quell’occasione, è rimasta muta. L’assenza del Vescovo mi ha ferito. Sarebbe stato un segno potente, un pastore finalmente tra le pecore. Per fortuna, e lo voglio riconoscere con gratitudine, c’è chi non arretra di un passo: penso a don Danilo, che ogni giorno, con passione instancabile, si spende per i ragazzi della nostra città. Ma la domanda resta: si può fare di più?

Voglio però anche ringraziare la sindaca, Roberta Tardani. Mettere a disposizione una cornice istituzionale per affrontare questi temi è stato un segnale importante, che riconosco con rispetto. Ma proprio perché questo spazio esiste, la responsabilità di riempirlo con visione e coraggio è ancora più grande. Lo dichiaro senza infingimenti e con un filo d’ironia: sì, sono un cattocomunista. Lo dico sorridendo, perché so che questa definizione fa storcere il naso a molti.

Ma ditemi: che senso ha ridurre il destino dei nostri figli a una contesa di tessere, a un gioco di slogan, a un inventario di appartenenze? Le ferite educative non abitano i confini di un partito: non è né di destra né di sinistra. Non si lenisce con la retorica, non si placa con la propaganda. È respiro inquieto, è futuro che bussa alle nostre porte, è la cartina di tornasole della nostra capacità di essere comunità.

E allora basta ipocrisie: i dati del procuratore Flaminio Monteleone parlano chiaro e pensare che Orvieto ne sia immune è illusione. Non servono cronache giudiziarie per accorgersene: basta attraversare certi spazi urbani nelle ore serali per cogliere la marginalità che avanza, i segnali di microcriminalità, le ferite che toccano i più giovani.

E non raccontiamoci che sia soltanto una questione di risorse. Da anni esiste un tavolo permanente presso i Servizi Sociali: bene, ma con quali risultati? La verità è che troppo spesso mancano coraggio e prospettiva.

Che fare, allora?

  • Presìdi psicologici permanenti nelle scuole. Non sportelli a intermittenza, non progetti destinati a scomparire alla scadenza di un bando, non finestre che si chiudono appena finiscono i finanziamenti. Permanenti. Stabili. Strutturali. I ragazzi non vivono “a progetto”: hanno bisogno di adulti che restino, non di iniziative che svaniscono come meteore.
  • Spazi giovanili autentici, non scatole vuote. Luoghi rassicuranti e simbolici, capaci di accogliere e dare protagonismo agli adolescenti. Se qualcosa già c’è, bene: allora la sfida è il rafforzamento e la continuità. Altrimenti, restiamo complici di muretti e solitudini.
  • Educazione digitale critica. Perché i nostri figli non diventino prigionieri di algoritmi e solitudini online. Non si tratta di demonizzare la tecnologia, ma di insegnare un uso responsabile e consapevole. Senza questa bussola, consegniamo i nostri figli a un far west digitale senza argini.
  • Neuropsichiatria infantile potenziata. Mesi di attesa oggi equivalgono a un abbandono. Se i servizi già funzionano, va chiesto che siano più rapidi, più accessibili, più equi. Troppe famiglie, non potendo aspettare, sono costrette a ricorrere all’out of pocket, pagando di tasca propria visite e terapie. Chi può permetterselo accede a un percorso, chi non può resta indietro. È un’ingiustizia che trasforma una fragilità in destino e una disparità economica in condanna educativa.
  • Educazione di strada e patti educativi di comunità. Perché nessuno resti invisibile, né nei quartieri né nelle aree interne. Dove già esiste qualcosa, rafforziamolo. Dove manca, attiviamolo. Lasciare zone d’ombra significa alimentare la devianza.
  • Una Consulta giovanile concreta. Non una passerella, ma una voce autentica delle nuove generazioni. Se è già stata istituita, rilanciamola; se è ferma, riapriamola; se non c’è, creiamola. Dare parola ai giovani non è un favore: è un dovere democratico.
    Non è utopia: è ciò che serve per non voltarsi dall’altra parte.

E qui la mia provocazione: smettiamola con i convegni autoreferenziali, con le riunioni chiuse in stanze riservate. Diamoci appuntamento in un luogo pubblico – Piazza della Repubblica o un altro spazio aperto – e parliamone insieme. Ma davvero insieme: maggioranza e opposizione, Chiesa e laici, associazioni e cittadini, insegnanti e genitori, ragazzi e istituzioni. Non osservatori, ma partecipanti. Non palchi, ma cerchi di ascolto reciproco.

Perché il disagio giovanile non è una pratica amministrativa, è la prova di verità della nostra città. Non basta dire alle nuove generazioni che hanno sbagliato strada: dobbiamo chiederci quale strada abbiamo consegnato loro.

I giovani non appartengono a una tessera: ci appartiene il dovere di non lasciarli soli. Se lo facciamo, la sconfitta sarà di tutti.

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