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Le piazze del silenzio: Orvieto e la sfida dell'amicizia

sabato 24 maggio 2025
di Angelo Palmieri

C’è una parola che andrebbe radicalmente sovvertita, soppesata, nutrita come si fa con i gesti antichi: amicizia. In un tempo che necrotizza le relazioni e si ingegna nel confezionare dossologie dei legami – connessioni che non graffiano più la pelle, privi di incarnazione – Simone Weil ci ricorda che esiste una forma più alta di prossimità, che non si fa prevaricazione, né barbaro possesso, e non si consuma con frugalità.

Scrive: "L’amicizia è quel miracolo in virtù del quale un essere umano accetta di guardare alla dovuta distanza e senza accostarsi l’essere a lui necessario quanto il nutrimento". È uno sguardo che ormeggia nella distanza, elevata a luogo sacro, spazio di docile deferenza affettiva; e insieme riconosce l’altro come indispensabile per respirare senza broncospasmi.

In questo equilibrio tra sete e misura si apre la possibilità di una comunità vera, non fondata su interessi ridotti a valore di scambio, ma su un destino condiviso. Un tessuto umano fondato sull’ascolto, sulla fedeltà silenziosa, sulla capacità di non forzare l’altro a essere per noi ciò che desideriamo. Orvieto, con la sua pietra serena e le sue piazze ancora resistenti alla quiete disciplinata, può diventare il luogo in cui educarsi a quel legame disarmato “che non accosta”, ma che salva.

In un mondo muscolare, dove vince chi travolge, restituire valore a ciò che non invade è già rivoluzione. Ma perché questa amicizia non resti parola rarefatta, serve che anche la politica locale si faccia educatrice di relazioni non performative, ma umane. Servono spazi che non siano meri contenitori di eventi, ma fucine di incontro gratuito, intergenerazionale, non finalizzato al consumo. A Orvieto non manca la bellezza, ma manca il coraggio di servirla al bene comune.

Perché non restituire le piazze ai giovani, non solo con concerti o kermesse, ma con presìdi stabili di ascolto, con case dell’amicizia dove anche la fragilità possa sedere alla pari? Perché non fare dei quartieri marginali laboratori relazionali e civici, invece che relegarli a periferie senza pari dignità?

Si ha il dovere – non l’opzione – di progettare la città come luogo educante, che non premi l’efficienza, ma custodisca l’umano nella sua vulnerabile grandezza. Ora la parola passi, finalmente, alla nostra intellighenzia locale: tacciano i protocolli, parlino i pensieri liberi. Non si costruisce una comunità con l’inerzia delle cerimonie.

 

 

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