"Orvieto rantola, ma il Palazzo tace"

Ci sono mattine in cui Orvieto non è solo la città della rupe, ma una città rantolosa, sfiancata da ferite purulente. Una città che assiste, immobile, come se avesse esalato il suo mortal sospiro, al disfarsi della sua trama sociale, come se fosse cosa ordinaria, banale persino, che un uomo debba scegliere tra un piatto di pasta non riscaldata e una scatola di farmaci. Come se fosse accettabile che un ragazzo disabile, in una frazioncina, resti prigioniero del proprio corpo e della propria casa perché nessuno ha pensato che anche muoversi è un diritto, non un lusso.
Sono storie vere, non figurine da relegare in fondo ai cassetti. Sono persone che ho incontrato: occhi bassi, voci rotte, mani stanche. Anziani policronici abbandonati nella penombra di salotti senza più figli, con nessuno che li visiti più, con neppure una verifica sulla corretta assunzione delle medicine. Immigrati piegati nei campi o nei cantieri, sfruttati come braccia a perdere, senza contratto, senza assicurazione, senza futuro.
E mentre questa città silenziosamente frana, l’amministrazione di centrodestra gonfia il petto con una disinvoltura tronfia.
Sicumera e narrazione. Slogan e passerelle. Nessun piano reale, articolato, misurabile. La povertà cresce, assume forma sistemica. E loro? Parlano di turismo in aumento, come se bastasse riempire qualche weekend per restituire dignità a una vita che ogni giorno lotta per la sopravvivenza. Il fermento di una piazza non basta a nascondere il vuoto di tante cucine spente.
Dove sono le misure serie per il contrasto alla povertà? Dove la capacità di una tecnocrazia di passare dai fondi ai fatti, dalle carte alle biografie maltrattate delle persone? Tutto è terribilmente ingessato. Tutto è rallentato. Come se la macchina amministrativa avesse perso il motore e si accontentasse di lucidare la carrozzeria per le sagre di paese. Si resta fermi, e nel frattempo la dignità si consuma, come scarpe bucate sul selciato dell’indifferenza.
Intanto, il centrodestra della sindaca Roberta Tardani si muove come una classe dirigente sazia e arrogante. Un’élite autoreferenziale, che amministra con la pancia piena e lo sguardo corto, incapace persino di dire la verità ai propri cittadini. La sanità è moribonda, i servizi territoriali arrancano, la povertà educativa dilaga nelle periferie e nelle frazioni, eppure si continua a parlare di eventi, di numeri che non dicono nulla.
È come se su questa città fosse calato un manto grigio di rassegnazione, e la democrazia stessa, quella fatta di partecipazione, confronto, vigilanza, si fosse accartocciata su sé stessa. Una spirale regressiva, dove il dissenso non trova casa e la critica viene respinta come un fastidio. Chi alza la voce viene ridotto a guastafeste. Ma chi tace è complice.
Orvieto ha bisogno di cura, non di comunicati. Di coraggio, non di vetrine. Di chi guarda in faccia le sue povertà, le nomina, le affronta. Perché non c’è bellezza che tenga se, ai piedi della rupe, la gente muore lentamente nella solitudine, nel bisogno, nel silenzio. Tardani, ci dica se ha ancora voce o solo silenzi da amministrare.

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