L'ora del coraggio per una vera riforma previdenziale

Con l'approssimarsi dell'autunno si ritorna a parlare – come avviene ogni anno ormai da un decina a questa parte – di pensioni e della necessità di risparmiare sulla spesa previdenziale.
Premesso che a mio modesto parere l'unica strada per risparmiare davvero sulla spesa previdenziale è rappresentata dalla scelta politica di trasferire in carico alla fiscalità generale la spesa per l'assistenza, a me personalmente questa storia non convince più di tanto se è vero – come è vero – che siamo passati ormai da circa vent'anni al sistema contributivo, quello per cui ciascuno vedrà calcolata la sua pensione in rapporto al contributi effettivamente versati durante la propria vita lavorativa e professionale.
Sono comunque convinto che si possa e si debba scrivere un capitolo definitivo in materia previdenziale, a condizione che si fondi – una volta per tutti – su paletti concreti e su regole rispettose del dettato costituzionale in tema di parità di diritti e doveri tra tutti i cittadini italiani.
Sono favorevole, personalmente, a fissare tre condizioni per l'accesso alla pensione: età anagrafica pari o superiore a 65 anni, anzianità contributiva pari o superiore a 40 anni, importo minimo annuo dell'assegno pari o superiore al minimo vitale mensile Istat relativo all'anno precedente moltiplicato per 13 mensilità.
Di fatto, si tratterebbe della definzione di una “quota 105” per accedere alla pensione ma in formato flessibile nel caso in esame: 105 rappresenterebbe la somma tra gli anni di età anagrafica e gli anni di contributi previdenziali; la flessibilità verrebbe intesa come possibile variazione dell'età anagrafica fino ad un massimo di 3 anni e dell'anzianità contributiva nel senso che all'aumentare della seconda si ridurrebbe la prima: con 41 anni di contribuzione si potrebbe accedere alla pensione a 64 anni di età, con 42 l'età anagrafica scenderebbe a 63 e con 43 a 62 anni, fermo restando il rispetto dell'importo minimo dell'assegno di pensione.
All'inverso, la flessibilità in uscita potrebbe essere incentivata al ritardo – per un periodo massimo di 5 anni – per sostenere la permanenza volontaria al lavoro: in questo caso l'incentivo potrebbe essere costituto da una riduzione del 20 per cento dell'ammontare minimo annuo dei contributi previdenziali per ciascun anno di posposizione della pensione. In questa fattispecie il lavoratore cumulerebbe l'intero ammontare dei contributi minimali di legge mentre il sistema previdenziale - in luogo dell'assegno di pensione – pagherebbe circa 900 euro nel primo anno, 1800 nel secondo, di 3200 nel terzo, di 3800 il quarto e, infine, di circa 5000 euro nel quinto ed ultimo anno.
Nell'ottica di riaffermare - anche in tema previdenziale - il principio costituzionale della parità di diritti e doveri per tutti i cittadini italiani appare fondamentale definire per legge un orario di lavoro uniforme – valido ai soli fini previdenziali – per tutti: una possibile ipotesi potrebbe essere quella di adottare una via mediana tra i vari orari di lavoro vigenti e l'ipotesi più verosimile potrebbe essere rappresentata dalle 38 ore settimanali come orario medio legale di lavoro.
Questa soluzione interverrebbe indirettamente, di fatto, anche sull'età pensionabile: considerando i 40 anni contribuzione minima significa infatti un'anzianità lavorativa di 2080 settimane contributive da 38 ore settimanali, per un ammontare complessivo di 79040 ore; per i lavoratori contrattualizzati a 40 ore settimanali – a parità di monte ore complessivo – significherebbe ridurre le settimane contributive da 2080 a 1976, ossia a 38 anni di anzianità contributiva; per lavoratrici e lavoratori contrattualizzati a 36 ore ore settimanali - sempre a parità di monte ore complessivo – le settimane contributive necessarie per accedere alla pensione salirebbero invece a 2196 ossia a 42 anni e 3 mesi.
Il meccanismo così impostato darebbe anche una prima importante risposta alla necessità di anticipare l'età di pensionamento in favore dei soggetti impegnati in lavori più “pesanti” sul piano del tempo di impegno investito, ferma restando la necessità di prevedere un congruo anticipo dell'età pensionabile per tutti i soggetti impegnati in lavori usuranti, in favore dei quali appare abbastanza ragionevole l'ipotesi di riconoscere 1 anno di anticipo dell'età per ogni 5 di contribuzione derivante dallo svolgimento di lavori catalogati come usuranti.
In questo quadro assume parimenti rilievo anche l'importo degli assegni di pensione che si andranno a percepire al momento dell'uscita dal mondo del lavoro; la proposta qui avanzata prevede un importo minimo dell'assegno annuale pari a 13 volte il minimo vitale Istat ma è certamente importante garantire anche assegni pensionistici adeguati sia al fine di garantire un dignitoso tenore di vita alle persone che nell'ottica del quadro economico nazionale.
In quest'ottica, appare utile fare con assoluta trasparenza alcune considerazioni.
Assumendo un importo annuo base dei contributi previdenziali che si aggiri intorno ai 4500 euro il totale degli stessi dopo 40 anni di contribuzione il montante dei contributi previdenziali versati rivalutato frutterebbe una somma che suddivisa per 20 anni di vita pensionabile media darebbe un importo dell'assegno di pensione di circa 900 euro, importo ad oggi non esattamente in linea con il minimo vitale Istat e non sufficientemente congruo – spesso e purtroppo – con le esigenze quotidiane di base.
All'interno di un progetto di riforma previdenziale che voglia davvero portare a compimento il passaggio ad un sistema completamente contributivo appare evidente che l'unica strada percorribile sia quella di arrivare a piani previdenziali personalizzati sulla scia – dal punto di vista del funzionamento - di quelli di natura privata. Ciò significherebbe, tradotto nella realtà, che al minimo contributivo di legge ciascun lavoratore o lavoratrice possa aggiungere dei versamenti volontari aggiuntivi e che la rivalutazione dei montanti contributivi sia legata al tasso annuo di inflazione e al tasso di interesse medio annuo dei titoli di stato, il cosiddetto Rendistato, assumendo ad esempio come coefficiente di rivalutazione la media tra il Rendistato e il tasso di inflazione annua riferito ai beni e servizi di maggior consumo in ambito familiare e sociale. La rivalutazione del montante contributivo avverrebbe quindi sulla base di un coefficiente annuo costituito da una percentuale della media tra il rendimento medio annuo dei titoli di stato poliennali e il tasso medio annuo dell'inflazione relativa ai beni di consumo, realisticamente ipotizzabile all'85 per cento della media come indicata.
Per quanto concerne i versamenti volontari aggiuntivi l'ipotesi potrebbe essere concretizzata consentendo di aggiungere ai contributi obbligatori minimali somme volontarie aggiuntive per un importo massimo di 1200 euro l'anno (fisso per tutti onde evitare diseguaglianze sociali legate al reddito disponibile), prevedendo per queste ultime, una durata minima di 3 anni e massima di 10 anni e, in luogo della deduzione integrale prevista per la contribuzione obbligatoria, la detrazione fiscale del 19 per cento nel calcolo dell'Irpef dovuta; le somme versate su base volontaria andrebbero a sommarsi al montante contributivo lavorativo e quindi ad incidere in positivo sull'assegno di pensione. Unica differenza, occorre precisarlo con chiarezza, dovrebbe essere la previsione di rimborso agli eredi in caso di utilizzo parziale delle somme accantonate in quanto trattasi di versamenti volontari, dedotto dalle stesse il 12,50 per cento di imposta calcolato sulla differenza tra il capitale finale e le somme versate.
Con riferimento, infine, al tema tanto caro ogni anno in tempi di legge di bilancio ossia quello della tenuta dei conti del sistema previdenziale occorrerebbe innanzitutto chiarire una volta per tutte quali siano i costi reali della previdenza “vera e propria” e quali quelli degli oneri destinati ad assegni e contributi assistenziali riconosciuti ai cittadini che ne abbiano diritto, in quanto occorre mettere nero su bianco – una volta per tutte e definitivamente – che gli oneri prettamente previdenziali si pagano con le entrate contributive delle lavoratrici e dei lavoratori mentre le somme destinate all'assistenza – che possono riguardare la generalità dei cittadini - devono essere finanziati con le entrate della fiscalità generale, cioè con le tasse della pluralità dei cittadini e non ponendole a carico della sola contribuzione di lavoratrici e lavoratori.
E' chiaro che di pari passo, con una riforma profonda del sistema previdenziale, non è più rinviabile la necessità di una riforma strutturale del sistema fiscale nazionale all'interno della quale – per restare, in questa sede, solo ai temi previdenziali – prevedere due novità sostanziali; la previsione di una no tax area adeguata – più alta rispetto a quella dei redditi da lavoro - in considerazione delle maggiori necessità quotidiane e sociali delle persone anziane, una formulazione del reddito imponibile che sia omninocomprensiva di tutti i redditi del contribuente (di fatto una dichiarazione Isee e fiscale unica) e, infine ma non importanza, l'applicazione delle aliquote previdenziali sul valore complessivo del reddito imponibile del cotnribuente, fatte salve del deduzioni di legge.
In ultimo, mi assumo la responsabilità morale, personale e politica di tre ultime proposte di riforma.
La prima: se è vero, come è vero, che uno dei problemi – tra i tanti – del sistema previdenziale italiano saranno nei prossimi anni la contribuzione, l'età e il valore dell'assegno pensionistico dei giovani di oggi, delle ragazze e dei ragazzi che escono ora dalla scuola per fare il loro ingresso nel mondo del lavoro, potrebbe essere importante prevedere la possibilità per i genitori di costituire - a partire dal compimento del 16simo anno di età dei giovani – un fondo previdenziale volontario presso la previdenza pubblica in favore degli stessi, attraverso il versamento di contributi previdenziali crescenti, per un importo massimo di 1200 euro l'anno e per un periodo massimo di 5 anni.
La seconda: la previsione di un un periodo di servizio di volontariato civile, della durata variabile da 1 a 3 anni – sulla falsa riga del vecchio servizio di leva che prevedeva anche la facoltà della durata volontaria fino a 3 anni – non solo costituirebbe un valore aggiunto importante dal punto di vista culturale, sociale e ambientale dando manforte al sistema pubblico dei servizi al cittadino e al territorio ma potrebbe rappresentare anche una ulteriore opportunità di finanziamento integrativo della previdenza attraverso il riconoscimento per metà del periodo di una contribuzione figurativa a fini pensionistici e per l'altra metà l'occasione per riconoscere una contribuzione previdenziale parziale, successivamente riscattabile per la parte mancante dai soggetti interessati.
La terza: con riferimento alla pensione di vecchiaia, alle regole attuali che prevedono il raggiungimento di 67 anni di età anagrafica e un minimo di 20 anni di contribuzione previdenziale occorrerebbe aggiungere l'innalzamento generalizzato del requisito della residenza legale nel Paese, in via continuativa, ad una quota non inferiore a 20 anni.
E' forse l'ora del coraggio vero, politico e sociale, per scrivere una riforma seria e duratura del sistema previdenziale.
Anche perché fare riforme dovrebbe significare disegnare – per ambiti – il progetto di Italia che si ha in mente almeno per l'arco dei futuri 15-20 anni senza pregiudizi, senza demagogia e senza populismo ed è in questa logica che si dimostrano acume, coraggio e determinazione: il tema della previdenza può essere un banco di prova importante per maggioranze, opposizioni e parti sociali.

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