Il Duomo e la Città. A proposito di un'omelia del Vescovo di Orvieto

Ho ascoltato l’accorata omelia del Vescovo di Orvieto Gualtiero Sigismondi in occasione della ricorrenza della Dedicazione della Cattedrale.
Il Vescovo ha ribadito una posizione che già aveva espresso, anche con toni preoccupati e per certi versi da profeta inascoltato che ancora una volta lancia un Messaggio che vede spiazzato dalle miserie del tempo in cui viviamo. Come Cristo che intimava ai mercanti di lasciare il Tempio, il Vescovo rivendica la dimensione del sacro come costitutiva del Duomo, spazio dove l’umano abbandona la secolarità e si proietta verso il trascendente, rimosso dalla quotidianità degli affari, dei poteri e dei sentimenti. E ricorda come il Duomo sia nato dall’empito di fede degli Orvietani, oltre che di un tempo assai più incline del nostro a sentire nell’aldiqua la presenza vivificante e salvifica dell’aldilà.
È una voce importante quella di un Vescovo, tanto più quando si staglia nel silenzio, non solo simbolico, di una Grande Chiesa, fuori da controversie molto terrene e forse anche poco commendevoli e dal frastuono ininterrotto di un mondo-flusso spesso consegnato a un chiacchiera in cui tanti spiriti - non necessariamente religiosi, nel senso confessionale del termine - del Novecento avvertivano il rischio di una modernità tanto piena di sé, quanto svuotata di Senso. E colpisce la solitudine da cui arriva quel richiamo che rende ancora più intensa la sua parola, che risuona persino dolente nel vuoto delle navate e all’ombra del Cristo che veglia sull’altare.
Ecco, la Grande Chiesa può essere ancora un luogo della Parola e io, il Vescovo spero me lo consenta, ne sento il fascino solitario e l’ardimento ormai desueto a fare del discorso un luogo in cui si evoca l’indicibile.
Non è questione di essere cristiani - non so se valga ancora l’avvertimento crociano, “non possiamo non dirci…” - piuttosto mi pare che appartenga alla nostra umanità percepire, per il limite consustanziale che la segna, un oltre e dunque un’Alterità che dentro di sé condivide nell’Assenza. Né bisogna essere Pascal per sentire la differenza, compresente, che passa tra l’ésprit del finesse e quello de géometrie e lascio a ognuno di trovare, se può, una sintesi, L’esercizio del pensiero è arduo e solo le frettolose contrapposizioni vorrebbero ridurlo a schemi e perimetri. E in questo potrebbe assomiglia a quello della fede…
In ogni caso, non voglio avere la presunzione di fare una chiosa… filosofica a un’omelia che, ecco il punto che tutti ci riguarda, tocca una Città così profondamente legata al Duomo. Per tanti motivi. Fisicamente come osserva con stupore chiunque arrivi dalla parte di Buonviaggio e lo veda ergersi fuori scala sul transatlantico della Rupe. Simbolicamente, perché la Città gli si raccoglie intorno e gli Orvietani hanno da (quasi) sempre la consuetudine con una Bellezza inaudita che entra nella loro quotidianità e, che se ne rendano conto o meno, fa parte intrinseca del loro sguardo e li mette in una Storia che inizia - nulla inizia, c’è sempre un prima… - alla fine del Duecento, in cui ci stanno lo spirito di un tempo in cui si poteva essere sanguinari e crudelissimi e con la stessa potenza tirare su una Cattedrale all’Assunta di cui chi la iniziava non avrebbe visto il compimento, e poi raccogliervi le reliquie di un Miracolo.
Non importa che tutti se ne ricordino, quella Storia è lì, parla ogni giorno, in quello del Corpus Domini come in quell’Assunta, nella facciata del Duomo, nelle navate e nelle cappelle. E quali simboli più forti, a ricordarci questo slittamento dalla Storia, appunto, in un Altrove rispetto al tempo qui-e-ora? Quello in cui, ed eccoci alla mano che si alza del Vescovo, il Duomo viene sottoposto a un processo che una volta si chiamava di reificazione, diventa cioè l’oggetto dell’attenzione distratta di folle composte da una figura che fa parte intrinseca di una modernità cosiddetta dei consumi, in cui tanti possono viaggiare, per divagarsi, passare il tempo, ognuno libero di seguire interessi e pulsioni: il turista.
Abbiamo celebrato il disincanto come virtù della modernità e adesso ci viene qualche dubbio sul confine che la separa dalla volgarità che altro non è che l’adesione egoistica all’esistente, dalla cui tentazione cui nessuno può chiamarsi fuori.
Una figura, il turista, che oggi rappresenta un convitato tutt’altro che di pietra alla mensa dell’economia di una Città che vede latitare le industrie del terziario (e purtroppo anche del quaternario e oltre…), soffre di marginalità ed è presa in un imbuto demografico.
Così, i turisti sono diventati una ciambella di salvataggio che rischia di non avere alternative, basta camminare per strade e piazze per vedere una seriale successione di trattorie, ristoranti, pizzerie, gadgets, botti, dehors disordinati all’ombra di uno sterminato bed&breakfast.
Il Vescovo tuona contro la Profanazione del Tempio. Ha ragione, è paradossale dirlo a un uomo di fede, ma la sua vox clamans voglio permettermi di rifrangerla anche sull’attualità in cui è presa la Città che deve decidere - non ha più molto tempo e forse, spero di no, è già nell’irreversibile - del suo futuro. Se sarà il parco a tema di se stessa, come fanno a Las Vegas o in Cina, con il Pozzo di San Patrizio e, appunto, il Duomo che rischiano anche qui di essere la copia di se stessi, come andare a Rialto o alla Fontana di Trevi o a Pompei. Tutto uguale, senza che ci sia spazio per la differenza, sotto la quale possono starci tante cose: l’originalità di un’esperienza, una tangente rispetto al supermercato, la radura che si apre nel fitto del bosco e dà luce, ma anche una Città capace di raccontarsi e dunque anche la consapevolezza di Cittadini non appiattiti sull’hic et nunc ma memori di quello che sono stati e anche di quello che, nei secoli, sono stati capaci di fare, e quindi anche delle ignominie e degli slanci, delle decadenze vissute e dei sogni sognati e non realizzati, vogliosi di farsi condividere da chi viene e di dare la possibilità di un lavoro per chi vuole restare, magari in una Città vitale e non tempio, lo scrivo con la minuscola, residuale di un voyeurismo frettoloso che guarderà i residenti come un poco alieni, mi viene in mente Freud, che venne qui un sacco di volte e nelle lettere parlava degli orvietani “scuri di pelle”…
Al Vescovo vorrei dire la sua solitudine mi appare come il valore di un controcanto dell’inerzia che minaccia la Città.
Questo tempo ci è toccato, non ho la certezza che ce ne sia un altro, sono sicuro però che anche questo è sospeso tra il passato e il futuro e che nulla è mai dato, come dimostrano gli impensabili sommovimenti nei quali ci troviamo, immersi nella diretta delle tecnologie, clima e pandemie, guerre e pure l’intelligenza che pomposamente viene chiamata artificiale e la scienza che pensiona Newton tra le materie oscure e la simultaneità dei quanti. Cambiamo, la nostra testa presa tra i dinosauri che furono e ormai così disillusa del Sapiens dal temere che non ci sia nessun Progresso infallibile.
Il tempo scorre - e il filosofo direbbe da questo punto di vista che è sempre uguale a se stesso, anche nella totalizzante e ormai antropo-tecnologica connessione in cui siamo presi. Scorre come quello della vita e dunque anche della Città che siamo. E se la Chiesa nella sua interiorità reclama la sua differenza, la sfìda - inevitabile e fatale - deve essere anche quella di uscire e guardare fuori. In quello che chiama il Mercato da cui si sente assediata e straniata.
Nelle volte e sulle pareti della cappella Nova, Luca ha dipinto l’apocalittico e sconvolgente immaginario della Fine. Era quello che i Soprastanti di un’Opera del Duomo che onorava allora la sua missione, gli avevano commissionato ma il pittore eccellente, come lo chiama Giorgio Vasari, lo ha fatto con i corpi, i muscoli, il petto e i glutei degli uomini e delle donne che vivevano intorno a lui.
