politica

La relazione introduttiva di Carlo Emanuele Trappolino

lunedì 29 gennaio 2007
Assemblea Congressuale dei Democratici di Sinistra di Orvieto Relazione introduttiva di Carlo Emanuele Trappolino Orvieto, Palazzo dei Sette (Sala del Governatore) 28 gennaio 2007 Un saluto alle compagne e ai compagni che hanno voluto essere qui, questa mattina, agli ospiti, agli amici che vedo in sala. Un saluto al presidente dell’Assemblea Fausto Prosperini e al segretario regionale dei DS Fabrizio Bracco. Torniamo in questa sala a distanza di due anni. Qui, nel dicembre del 2004 si concluse il nostro ultimo congresso. Una scommessa importante venne fatta dal partito in quella occasione: avviare un concreto processo di rinnovamento generazionale, costruire le condizioni per far crescere una nuova classe dirigente. Abbiamo alle spalle anni di intenso lavoro, di grande dibattito, e anche di discussioni serrate. Non tutto era scontato e soprattutto facile; ma quel processo ormai è in corso. L’appuntamento di oggi ne rappresenta un tratto importante, io credo, ma non risolutivo né esaustivo. A Marino Capoccia, segretario uscente e oggi assessore al Comune di Orvieto, va il mio saluto e il mio ringraziamento, per la fiducia e l’impegno mostrato nel credere fermamente al progetto di rinnovamento del partito. Parliamo subito, allora, del nostro partito cominciando dai numeri: oltre millecento sono gli iscritti (incremento del 16% rispetto allo scorso anno); più del 34% sono le donne. Gran parte delle sezioni della nostra Unione Comunale è guidata da giovani, con un’età media di quarant’anni. Un partito vivo; fatto dalle centinaia di volontari che ogni anno si mobilitano per dare vita a quelle straordinarie feste di popolo che sono le nostre Feste de l’Unità. Quest’anno abbiamo partecipato insieme al partito regionale, portando competenze, esperienze, stile e passioni, alla festa nazionale dell’Unità di Pesaro. Un partito vivo, con responsabilità di governo nel Paese, nella maggior parte delle Regioni, delle Province e nei Comuni. Siamo il partito che, più di ogni altro, ha dimostrato nel nostro territorio una grande capacità di iniziativa politica e di mobilitazione. In questi anni, abbiamo incontrato tanti giovani, spesso precari nella loro condizione di lavoro e di vita, i lavoratori e le imprese, i sindacati e le associazioni di categoria – ed è anche con il loro contributo che abbiamo costruito la nostra proposta politica. Il Documento, presentato in occasione della Conferenza programmatica del dicembre 2005, ha rappresentato un momento fondamentale di elaborazione collettiva ed ha ridefinito gli assi di sviluppo del territorio, apportando all’azione amministrativa della nostra città importanti elementi di innovazione. Ecco. In questo modo, il partito è stato presente, nella città e sul territorio, con momenti di alto valore progettuale, culturale e propositivo. Molteplici, inoltre, sono state le occasioni di confronto pubblico con le forze sociali e imprenditoriali, e le iniziative: sulla riqualificazione del Centro Storico, sulle tematiche del lavoro, sulla legalità e la giustizia. Questo, compagni, sono i Democratici di Sinistra di Orvieto. Il più grande partito della città, radicato e organizzato. Questo è il suo volto: una comunità di uomini e di donne che liberamente si associano, discutono, agiscono e decidono per dare dignità e diritti alle persone; dare forza ai valori della solidarietà e della giustizia sociale; per immaginare e costruire un futuro migliore. Qui, prima che nei numeri – in questa passione e in questi ideali – risiede la vera forza del nostro partito. Un partito che sta costruendo il futuro. E, badate compagni, non si tratta soltanto di un’affermazione retorica. Un iscritto su 5 è un giovane sotto i quarant’anni e molti giovani sono impegnati all’interno delle sezioni e degli organismi dirigenti. C’è voglia di fare e di partecipare. Dove stiamo andando, compagni? In quale direzione ci stiamo muovendo? Non parlerò ora delle nostre questioni, del nostro congresso (di mozioni o di identità). No. Da qualche tempo circolano studi, proiezioni, rapporti sulla possibile catastrofe climatica provocata dal progressivo surriscaldamento del pianeta Terra. Gli scienziati lo chiamano “global warming”, il riscaldamento globale. In un recente convegno a Venezia alcuni esperti hanno delineato, da qui a cinquant’anni, questo scenario: Nel 2030 quasi tutta l’Australia sarà desertificata. In alcune regioni non piove da sei anni filati e ogni quattro giorni, da quelle parti, si rileva il suicidio di un contadino per fallimento. Per quanto riguarda l’Italia, a partire dalla metà del secolo, è prevista una progressiva desertificazione, la maggior parte delle città del pianeta diverranno rapidamente delle megalopoli. Phoenix, con la desertificazione dell'Arizona, è prevista passare da meno di un milione di abitanti (oggi) a 30 milioni nel 2030 e a oltre 50 nel 2050. l’Amazzonia si ridurrà alle dimensioni di una piccola foresta. altrettanto accadrà per il Borneo, oggi foresta pluviale. Gli oceani saranno sempre più caldi, e i mari inizieranno ad innalzarsi, non tanto per lo scioglimento dei ghiacci (che è in atto e continuerà), quanto per la semplice espansione termica delle acque stesse. Qualche mese prima dell’appuntamento veneziano, il governo inglese aveva affidato ad una commissione indipendente guidata da Sir Nicholas Stern (economista della Banca Mondiale) uno studio per definire i costi del riscaldamento globale. Da qui al 2100, questi sono i risultati: 7 triliardi di dollari (il 20% del Pil mondiale) sarà il costo della crisi climatica se non la si ferma o quantomeno la si mitiga; la cifra del danno stimato corrisponde all’intero Pil degli Stati Uniti; 200 milioni saranno i profughi, cacciati via dalle loro case in seguito all'innalzamento dei mari e alle inondazioni; l'1% del Pil mondiale, pari a 349 miliardi di dollari, sarebbe sufficiente, se si agisse subito, ad evitarci il disastro. Anche la Commissione Europea prevede scenari inquietanti da qui al 2070: desertificazione di ampie zone d’Italia e Spagna, innalzamento del livello dei mari con conseguenze funeste per pesca, agricoltura e turismo. Le città costiere potrebbero venir sommerse. Questa è la realtà, queste sono le proiezioni di autorevoli scienziati e questo è lo scenario tratteggiato dall’Economist. Qui, c’è la necessità di una sfida. Il riscaldamento globale può essere contrastato in maniera efficace con politiche globali attivabili da subito. L’Unione Europea si è posta un obiettivo: riduzione del 20% dei gas serra entro il 2020. Un obiettivo molto ambizioso che richiede investimenti in energie pulite e rinnovabili. Non più rinviabile è, quindi, l’esigenza di un nuovo modello di sviluppo, una nuova valutazione della crescita economica. E questo lo si fa a livello mondiale – governando le contraddizioni e i conflitti. L’Europa, in questo contesto, deve dimostrarsi all’altezza della sfida. Capofila di una nuova era. In Europa è nata infatti quell’idea della scienza che concepì la natura come “essere inanimato” e la crescita in senso illimitato. Oggi, l’Europa deve mostrare al mondo la strada per uscire da questa situazione. “Là dove c’è il pericolo – diceva il poeta – cresce anche ciò che salva”. L’Europa, luogo di un nuovo umanesimo, può ridare al mondo un orizzonte di benessere e felicità proprio attraverso la scienza e la ricerca scientifica. Ma non solo: serve un nuovo pensiero in grado di reinventare i rapporti di produzione e riproduzione sociale, le politiche energetiche, le relazioni tra Uomo e Natura. Anche Orvieto deve fare la sua parte. La deve fare perché la nostra vuole essere una città-modello; una città, quindi, che deve porsi sul punto più avanzato dell’innovazione ambientale e sociale. Orvieto “cittaslow” ha il dovere di impegnare le sue migliori risorse nel settore dell’ambiente, dello sviluppo durevole e sostenibile, attraverso un progetto che implichi il raggiungimento di una città a “impatto zero”. La sostenibilità del modello di sviluppo e di vita non è un accessorio, una virtù per anime belle. Deve, anzi, diventare l’asse centrale del nostro modello di sviluppo. A questo punto è bene chiarire un fatto. La sostenibilità è un fattore economico. E questo per rispondere a quanti ritengono che i valori economici si creano in via esclusiva con cemento, fumi e petrolio. Un sondaggio compiuto alla vigilia di Davos – sede del forum mondiale dell’economia – fra i top manager delle maggiori imprese europee rivela che per il 45% degli amministratori delegati l'ambiente è diventato la preoccupazione numero uno, ha il sopravvento sulla crescita economica. Il 60% ritiene che l'Europa dovrebbe affidare il suo futuro energetico a fonti rinnovabili come il sole, il vento, l'idrogeno. La Toyota ha già sviluppato un motore misto a combustione ed a energia elettrica che dimezza i consumi e quindi le emissioni. Quest'anno la Toyota venderà 250.000 modelli di auto con motore misto. Da quando questo modello è stato introdotto, il valore di Borsa della Toyota è cresciuto del 47%. Inoltre, Federico Rampini – acuto osservatore delle trasformazioni mondiali - ci fa sapere che: “La Shell sta investendo nelle energie eolica e solare. Il più grande gruppo mondiale della distribuzione, la catena di ipermercati americani Wal-Mart - forse per riparare un'immagine macchiata dalle sue battaglie contro i sindacati - privilegia sistematicamente la vendita di prodotti non inquinanti e riciclabili. Un altro gruppo della grande distribuzione, Marks&Spencer, fa marcia indietro rispetto al dogma della delocalizzazione: anziché comprare tutto made in China cerca di approvvigionarsi da produttori vicini ai suoi punti di vendita, per minimizzare l'inquinamento creato dal trasporto delle merci. La multinazionale anglo-olandese Unilever, numero uno mondiale dell'agroalimentare, investe nel Terzo mondo per diffondere l'agricoltura biologica e le coltivazioni che riducono i danni alla biosfera”. Orvieto deve arrivare all’appuntamento con il “capitalismo verde” in maniera preparata, con un proprio profilo e proprie specifiche iniziative in tema di energie alternative, riciclaggio dei rifiuti, mobilità alternativa, tutela del territorio, qualità dell’alimentazione e dell’ambiente, filiere corte. Siamo in ritardo; dobbiamo recuperare rapidamente, per ri-allineare quello che da anni diciamo con quello che realmente facciamo. Il “global warming” è l’ evento epocale destinato a cambiare segno al corso di un mondo sempre più piccolo, sempre più stretto da reti di comunicazioni e di scambio merci. Un mondo dove culture diverse entrano in contatto non soltanto per via telematica e caratterizzato, come vuole qualche studioso, da una permanenza di “guerre asimmetriche” e/o regionali. Un mondo che è anche un mercato aperto, condizionato, almeno sino ad oggi, dalle scelte di grandi organizzazioni come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, il WTO. Organizzazioni la cui natura pone un problema in termini di democrazia e di legittimità. Un mondo attraversato da fenomeni contraddittori e colossali. Dai grandiosi esperimenti sociali dell’America Latina liberatasi dal pensiero unico dei neoliberisti della “Scuola di Chicago” al dramma delle popolazioni africane spesso condannate a morte per fame; dall’imponente crescita economica di Cina e India ai conflitti etnici nell’ex impero sovietico; dall’incerto cammino politico dell’Europa alla crisi della leadership mondiale degli USA. Una globalizzazione che ha divaricato in maniera ancora più sensibile la forbice tra ricchi e poveri anche nei paesi del capitalismo avanzato. Secondo alcuni la società post-fordista sarebbe rappresentabile per mezzo di quattro livelli: 1)un’aristocrazia molto patrimonializzata e affluente in grado di assicurare consumi significativi di beni; 2)un’élite abbastanza numerosa di tecnocrati della conoscenza con redditi medio-alti e con una notevole capacità di consumare 3)una società massificata di reddito medio-basso ma alla quale l’industria del “low cost” garantisce l’accesso a beni e servizi un tempo riservati a ceti più benestanti; 4)una classe “proletarizzata” (operai, pensionati senza reddito integrativo, insegnanti, dipendenti pubblici con famiglia a carico al minimo di stipendio) che consumerà beni di prima necessità. Una rappresentazione, questa, forse caricaturale della società, ma comunque degna di nota per la semplicità con cui si evidenza l’assenza del ceto medio. Uno degli effetti della globalizzazione, almeno nei paesi del capitalismo maturo, è misurabile proprio nella scomparsa del ceto medio. Anche l’Italia, in forme peculiari, mostra una tendenza analoga con quanto accade nel resto d’Europa e del mondo. Questo non è privo di significati politici e sociali. “Chi alimenterà i consumi di massa – ci chiediamo – quando la grande classe media che ha sorretto l’Italia dal dopoguerra a oggi sarà piombata nell’incertezza e sarà costretta a tirare la cinghia?” Fenomeni che il nostro partito è chiamato ad interpretare attraverso strumenti concettuali nuovi. Rischiamo di tornare indietro, dentro uno schema sociale che vede i molto ricchi tutti da una parte e i nuovi poveri dall’altra. Una prospettiva ottocentesca che va scongiurata, tanto più in una società, come quella italiana, caratterizzata da rendite di posizione e da una difficoltosa mobilità sociale. Oggi chi nasce povero rischia davvero di restarci per il resto della vita. C’è bisogno di un nuovo patto sociale, di un nuovo senso della cittadinanza, di una grande politica delle opportunità che rimetta tutti in carreggiata, che distribuisca le occasioni di emancipazione, formazione, crescita individuale e sociale. La sfida globale ci chiama a scelte decisive. Ogni anno i politecnici indiani laureano 200mila ingegneri, mentre quelli cinesi ne sfornano 350mila. Oltre mezzo milione di persone preparate e qualificate a disposizione delle economie più dinamiche del pianeta. La ricerca scientifica e tecnologica si sposta in questi paesi. Dobbiamo essere chiari, compagni. Se vogliamo mantenere il nostro livello di benessere, se non vogliamo perdere terreno è necessario uno sforzo supplementare in termini di investimento sulla conoscenza, sul sapere, sulla ricerca, sull’università. L’Italia produce 72 brevetti per milione di abitanti contro i 153 che rappresentano la media europea. La Hewlet-Packard (multinazionale dell’informatica) possiede 24mila brevetti e ogni giorno ne registra 11. L’Università “La Spienza” di Roma, con 150mila studenti, nel 2004 ha registrato 32 brevetti. Quelli che Hp realizza in tre giorni. Il governo Berlusconi rispose alla sfida globale con una sostanziale deregulation, con un dumping sociale e ambientale insipiente. Gli effetti sono stati nefasti e la nostra capacità di competere ne è uscita indebolita. Velocemente tre temi: (1) la precarizzazione del lavoro su scala globale, i (2) migranti, la (3) la centralità dei territori. La questione del lavoro è diventata planetaria. Rifkin, per altro acuto interprete della post-modernità, vaticinò, dieci anno or sono, l’imminente “fine del lavoro”. Il lavoro non solo non è finito, ma è diventato sempre più pervasivo e assieme precario. Chi porrà, mi chiedo, d’ora in avanti la questione del lavoro come diritto in un contesto di feroce competizione internazionale? La questione dei migranti emerge quando si parla di carrette galleggianti naufragate o in episodi (talora enfatizzati) di ordine pubblico. La popolazione italiana invecchia: nel 1950 la popolazione totale ammontava a 47,1 milioni di abitanti, il 34,8% dei quali aveva meno di 20 anni e il 12,2% ne aveva più di sessanta; a quell'epoca vi erano circa 3 giovani per ogni anziano. Al 1° gennaio 2005 la percentuale di over 65 anni e oltre ha raggiunto la significativa cifra del 19,5, mentre quella di minori è scesa al 17,1% . In cinquant’anni i giovani sono dimezzati. In questo senso gli immigrati rappresentano una risorsa vitale determinante: sociale, economica e culturale. La centralità dei territori. La globalizzazione, dapprima evento omologante, ha restituito una nuova centralità al territorio inteso come sistema complesso. Il Territorio è la “quarta T” da aggiunte a quelle teorizzate da Florida come metro per misurare il dinamismo di una società (talento, tolleranza, tecnologia). Un territorio verso cui è necessario tornare perché, come dice Giuseppe De Rita “è sul territorio che si esplica la voglia di viver bene, su cui si radica oggi buona parte del c onsenso sociale; è sul territorio che si può richiamare la responsabilità di tutti (imprese, enti locali e singoli) a rilanciare lo sviluppo e a razionalizzare spese e interventi”. Dentro questi processi l’Europa assume una centralità strategica. L’Europa come luogo di progresso e soggetto internazionale fondamentale per ridefinire su nuove basi i rapporti internazionali. Dopo lo smarrimento degli ultimi anni, con la crisi della cultura politica che sosteneva il progetto unitario e il blocco della nuova Costituzione, l’Europa è rimasta sospesa tra integrazione più avanzata e ritorni nazionalistici, tra chi apre i mercati e chi li chiude, tra grandi ambizioni e poco peso effettivo, fra logica burocratica e quella legata ai mandati democratici. Oggi, anche grazie al ruolo internazionale che ha riassunto il nostro Paese nel sostenere il processo di integrazione, quello europeo è tornato ad essere l’orizzonte di riferimento come forza di progresso nel mondo. Per la sua storia – l’ideale europeista nasce infatti dalla tragedia della guerra con una missione pacifista e con l’obiettivo di evitare nel futuro il ricorso alle guerre – e per i valori che qui si sono affermati, favorendo la democrazia politica e la realizzazione del più avanzato sistema di welfare. Noi crediamo che l’Europa debba essere una vera costruzione politica e istituzionale, un mercato regolato con norme condivise, istituzioni comuni e piena reciprocità, un processo di partecipazione e democrazia, un modello sociale, un’idea di responsabilità fondata sui diritti delle persone, uno spazio comune per tanti valori e tante idealità, a partire da quelle già presenti nella sua lunghissima storia. Un’Europa della cittadinanza, quindi, e non solo di produttori e consumatori. Bisogna, oggi, restituire un consenso, un’anima al progetto europeo tra le persone. In questo senso, grande responsabilità ha avuto il passato governo Berlusconi. L’Europa è stata vista solo come causa di mali più che di opportunità; nessuna vera integrazione europea è stata tentata; l’euro considerato al pari di una disgrazia. Il governo Prodi ha rovesciato questa impostazione. Il solido ancoraggio dell’Italia all’interno dell’Unione Europea rappresenta la principale garanzia per il rilancio della competitività del sistema industriale italiano. L’euro ha definitivamente chiuso l’era delle svalutazioni competitive e riallineato i nostri standard macroeconomici con quelli europei. Nella fase di passaggio verso la moneta unica si sono create le premesse per un graduale adeguamento delle strategie aziendali alle nuove condizioni di mercato e per il superamento del gap di competitività che via via si era formato tra il sistema Italia e quello dei principali partner europei. L’Italia è in Europa senza ambiguità. Questa fedeltà al “sogno europeo” consente oggi al nostro Paese di volgersi con autorevolezza verso le sponde travagliate del Medio Oriente, anche grazie al lavoro del compagno Massimo D’Alema, oggi ministro degli Esteri. I risultati non si sono fatti attendere, come dimostra il ruolo giocato dall’Italia in occasione della crisi israelo-libanese. L’Italia, riposizionando la sua politica estera dentro l’ambito europeo e nella logica del multilateralismo, ha contribuito a riportare l’ONU a svolgere un ruolo di garanzia dell’Ordine Internazionale. La politica della destra statunitense, infatti, e le crisi internazionali di questi anni, in particolare quella irachena, avevano dato un duro colpo all’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma proprio da queste situazioni di crisi l’ONU è uscita come unico soggetto a cui la comunità internazionale può ricorrere per dare soluzione politica con regole certe e condivise, ai conflitti. Nelle molteplici contraddizioni, l’alternativa all’unilateralismo americano e la possibilità di costruire su nuove basi le relazioni tra stati e popoli sono rappresentate dall’ONU e dal rilancio del ruolo dell’Europa. Quando nel 1995 si avviò il processo di Barcellona, per definire nel 2010 un’area di libero scambio euro-mediterranea, l’obiettivo dichiarato era quello di fare del Mediterraneo un mare di pace e prosperità, un ponte di dialogo fra culture, metafora di civiltà, che si riconoscono e si rispettano. Il “nostro mare” è oggi il teatro di tutte le contraddizioni che vi sono nel mondo: ricchezza e povertà, immigrazione forzata, le tante guerre aperte e quelle che si annunciano, conflitti etnici, un terrorismo alimentato da fondamentalismi religiosi che attecchiscono nel risentimento della miseria e della frustrazione sociale. E tra tutto, il tema più difficile: la reciprocità, il riconoscimento pieno di diritti e libertà, la coesistenza e la convivenza di culture diverse, dentro le nostre società e nel rapporto fra Occidente e Islam. Il Mediterraneo è dunque il banco di prova per la comunità internazionale e l’Europa nel misurarsi con queste sfide. Se vogliamo rendere più sicuro il mondo, non basta la lotta al terrorismo (ne abbiamo potuto misurare in questi anni tutti i limiti), per noi è prioritaria la lotta contro la povertà, la miseria sociale ed economica, il degrado ambientale e l’individuazione di strumenti politici che sappiano condurre questa lotta. In passato, la democrazia politica, lo sviluppo dello stato sociale e la diffusione di nuovi diritti e di nuove tutele hanno “civilizzato” la società capitalistica. Oggi, noi abbiamo il compito di civilizzare la globalizzazione: una nuova e moderna responsabilità dell’intervento pubblico su scala internazionale, una nuova dimensione sociale del processo di globalizzazione. Solidarietà, giustizia sociale, eguaglianza, promozione dei diritti umani, libertà. Sono le parole-chiave di una proposta per cambiare profondamente i caratteri della globalizzazione. E al tempo stesso, sono il punto di incontro di quelle forze politiche che in questi anni hanno contrastato la deriva autoritaria e conservatrice dell’ordine mondiale. Non si tratta di un compito facile. Se l’Europa è diventata il gigantesco laboratorio dove ripensare il futuro dell’umanità, l’intero corso dei suoi valori (welfare, istruzione, qualità della vita) vengono scossi dalla crescita imponente delle economie emergenti di Cina e India. Si pone il problema quindi non solo di difendere il modello europeo ma di rilanciare la sua missione civilizzatrice e umanizzante. Però questo non può essere affrontato con le sole buone volontà. Prima, è necessario non soccombere, guardare i fondamentali, assicurarsi le solidità del tessuto produttivo, rilanciare una grande stagione di innovazione e di crescita economica. In questo scenario l’Italia si trova ad affrontare una sfida doppiamente impegnativa sia per il quadro socio-economico dopo i cinque anni di berlusconismo, sia per le criticità strutturali del nostro sistema produttivo. Partendo da quest’ultimo punto, ci chiediamo se l’Italia è davvero nel pieno di un lento ma inesorabile declino industriale. Nel quinquennio 1997/2001 l’Italia è stato l’unico grande paese europeo a perdere quote di mercato nel mondo. Siamo ancora all’ottavo posto tra i maggiori esportatori del mondo, con una quota di mercato pari al 3,6%, ma nel 1991 eravamo al sesto posto con una fetta del 5%. La nostra impresa, si dice, è affetta da un “nanismo congenito” non è competitiva. Tuttavia, il Censis segnala una ripresa in quei settori dove il “Made in Italy” segna un primato. Oltre il 60% del valore delle esportazioni del 2005 si è concentrato in settori in cui l’Italia costituisce un partner estremamente competitivo a livello internazionale: molte aree della meccanica che pesa per il 20% circa sull’export italiano; i tessuti, la produzione di tubi, dove l’Italia è leader mondiale con una quota di mercato dell’11,3%. Siamo convinti che ci siano le risorse necessarie per uscire dalla crisi. A cominciare, tanto per fare qualche esempio, dalle straordinarie capacità italiane in termini di “design” e personalizzazione. La STM Microelectronics, la società italo-francese fondata da Pasquale Pistorio, vanta un primato mondiale nella produzione di microchip personalizzati. Siamo forti, dice Riccardo Illy, nell’innovazione incrementale. Nell’individuare possibilità ulteriori di tecnologie esistenti grazie a modifiche non sostanziali. Questa è l’Italia dell’ingegno, dell’estetica, della creatività. Il nostro partito sta svolgendo un ruolo fondamentale nella ricostruzione di un progetto di Paese che metta mano ad un futuro anche incognito. Con i provvedimenti del ministro per lo sviluppo economico, il compagno Bersani, il Governo ha iniziato ad affrontare la grande questione delle rendite e delle resistenze al cambiamento. “In ogni società – ci dicono gli storici - vi sono forze che si oppongono all’innovazione, che vogliono proteggere interessi particolari, piccole grandi rendite. Nelle aziende di questi Paesi gli ingegneri sono stati sostituiti da avvocati, commercialisti e lobbisti, ascoltati dal Governo, che li protegge e che guarda con sospetto agli innovatori. La storia ci insegna che qui inizia il declino di un Paese”. Alla radice dei provvedimenti sulle liberalizzazioni del Governo, c’è la convinzione che la concorrenza contribuisca ad oliare i meccanismi di mercato e della mobilità sociale. E qui bisogna capirci, compagni. La concorrenza, in un paese ad economia di mercato, è lo strumento attraverso il quale una economia cresce, diventa solida e produce innovazione. La concorrenza, sebbene il termine non appartenga per tradizione al vocabolario storico della sinistra, non può essere ritenuta prerogativa della destra. E ricordiamo in questo senso l’assoluta mancanza di iniziative della Casa delle Libertà durante il governo Berlusconi Senza peraltro cadere nell’enfasi, il provvedimento di Bersani comincia ad intaccare le inossidabili certezze delle rendite. Due economisti, Rajan e Zingales, hanno messo il luce con esemplare chiarezza l'aspetto forse più pernicioso di ogni sistema blindato dalle rendite: la barriere che esso tende a edificare tra gli inseriti e i protetti dal sistema di relazioni, e gli esclusi che sostengono i rischi “non solo della volatilità economica a breve termine, ma anche del declino nel lungo periodo”. Oggi una sinistra moderna ha il dovere di abbattere le pareti che creano artificiosamente inclusi ed esclusi. L’Italia non è destinata al declino. Certamente il nostro tessuto produttivo si è alleggerito, ha perso importanti colossi industriali che oggi sarebbe impensabile recuperare. Oggi, i primi provvedimenti del Governo ci indicano la nuova missione per l’Italia dentro il nuovo sistema internazionale della divisione del lavoro. La globalizzazione ci impone di puntare sulle nostre particolari attitudini: la qualità estetica, la raffinatezza, il gusto, la forza della cultura, della storia, del territorio. E, più in generale, la capacità di dare valore ad un prodotto con alti contenuti simbolici. I primi provvedimenti del governo Prodi tendono quindi a incidere sulle criticità del sistema produttivo. Anche il Disegno di Legge “Industria 2015” tende in questo senso ad aggredire le criticità per mezzo di una ritrovata “politica industriale” che orienti le risorse verso i segmenti del manifatturiero a più elevata produttività. Un approccio diverso alle questioni della crescita e dello sviluppo diverso dalla deregulation berlusconiana. Quest’ultima non sorge da un capriccio del caso ma da un disegno coerente di società: la scelta di introdurre una precarietà-flessibilità, salariale e normativa, nel mercato del lavoro e di tagliare tutti i costi, a cominciare da quelli dello stato sociale. Alle elezioni del 2006 il blocco elettorale della destra risultò sconfitto per 24.000 voti, segno di un persistente consenso e di un radicamento sociale non effimero. Ci troviamo dinanzi ad uno snodo della politica italiana. La globalizzazione non è solo una parola ma un processo reale che cambia il significato del nostro esistere e del nostro pensare noi stessi. Cambia pure la politica. Reichlin, per segnare il passaggio epocale con un’immagine storica, ci richiama alla mente la fine della civiltà contadina e l’avvento della civiltà delle macchine. Da quel passaggio presero forma i partiti della modernità industriale. Allo stesso modo oggi. Sta nel passaggio epocale il bisogno – scrive Reichlin - di una nuova soggettività politica molto più aperta al mondo e al futuro. Per questa ragione non è assurdo chiedere (anche se è necessario) l’ancoraggio al socialismo del Novecento. In questo passaggio è lo stesso pensiero che viene chiamato ad una responsabilità sovrana. Fintanto che la natura rappresentava un dato certo e immutabile, il pensiero si trovava all’interno di argini definiti dall’eternità. Una coppia di concetti – certezza/eternità – governava il nostro pensiero. Poi la scienza e la tecnica hanno cominciato ad operare sulla natura liberando gli argini del pensiero umano. La ragione diventa legislatrice della morale e della natura. Il regno dei fini dell’uomo, che viveva nelle scelte morali, diventa ora possibile anche nell’ambito della natura. Serve un nuovo pensiero, quindi, che nessuna delle grandi tradizioni politiche del Novecento può vantare in esclusiva. Un pensiero della responsabilità, un pensiero che fonda un integrale umanesimo morale che orienti laicamente, vale a dire attraverso la politica, l’economia e la tecnica. In assenza di un partito che assolva a un ruolo nazionale e che parli a donne e uomini della loro vita - rischiamo di perdere l’appuntamento con questo passaggio epocale. Il Novecento è finito. Non siamo più in grado di imporre un compromesso democratico al capitalismo sotto l’egida di una stato nazione. La globalizzazione, in assenza di un progetto politico alto, di rango europeo, ci impone due conseguenze: 1)l’avvento di una politica intesa come sottosistema locale dell’economia internazionale 2)la crisi della democrazia. La vecchia politica non c’è più. Viviamo in un limbo dal quale possiamo vedere già le anticipazioni di grandi decisioni prese dalle potenze economiche sovrastanti gli stati nazionali e il consolidarsi di fenomeni post-democratici quali i partiti personali, il populismo, la democrazia ridotta a rendere possibile la formazione di nuove élites. Oggi la priorità è la democrazia, il suo progressivo appannamento. Il nostro congresso deve essere, allora, l’occasione per discutere di questi temi. Una discussione franca, non timorosa di affrontare gli spigoli, le critiche, le perplessità, le incertezze. Una discussione rispetto alla quale auspico la massima partecipazione e la massima serenità. Se questa assemblea mi accorderà la fiducia voglio essere il segretario di tutto il partito. Pertanto, io mi asterrò dal partecipare alle attività di iniziativa politica delle diverse mozioni in vista del congresso. Una scelta, si badi, non dettata da opportunismo o “pilatismo”, ma coerente con la mia etica e il mio rispetto per il valore primario dell’unità del partito. Per ora il mio impegno sarà quello di garantire a tutte le mozioni la certezza di poter dibattere con tranquillità e partecipazione. Abbiamo un gran bisogno di tornare a discutere sulle grandi questioni, da posizioni differenti anche per riflettere sul senso del nostro sviluppo, sulla direzione da intraprendere, sulle misure da attuare. Come si colloca il nostro territorio, la nostra città, nelle dinamiche della globalizzazione? Come ci collochiamo all'interno del nuovo processo di divisione del lavoro internazionale? Credo, compagni, che dobbiamo imparare a rispondere alle sfide con franchezza. Seneca diceva che non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare. La domanda è, allora: dove vogliamo andare, con chi e per fare cosa? La città di Orvieto vive una fase di transizione. Il documento programmatico approvato dal partito nel dicembre 2005 rappresenta uno dei punti più alti dello sforzo progettuale compiuto dal gruppo dirigente. Tuttavia, lo stesso documento prende atto dell’esistenza di una forma di identità territoriale che stenta a definirsi sotto il profilo produttivo. Penso di non essere lontano dal vero nell'affermare che questo territorio non abbia ancora scelto, con chiarezza, quale asse di sviluppo privilegiare. Comprendo che la posta in gioco è alta, che non sempre è auspicabile il prevalere di un unico settore produttivo, che gli eventuali rischi è bene disseminarli in un sistema differenziato. Qui però non si auspica la riduzione della molteplicità degli attori dello sviluppo. No. Qui si sta parlando di ciò che, nell'economia globalizzata, dovrebbe rappresentare l'identità di Orvieto. Una città d'arte unica, singolare, ricchissima di storia. Una città delle eccellenze artistiche, architettoniche, artigianali, storiche ed enogastronomiche. Negli anni ottanta il software che fece girare la città fu il “Progetto Orvieto”, uno dei più imponenti progetti di riqualificazione urbana messo a servizio di un nuovo modello di sviluppo. Gli esiti di quel “progetto” sono sotto gli occhi di tutti. L'eclisse di un'economia fondata sulla presenza dei militari ha rappresentato un ulteriore passaggio epocale. Negli anni Novanta quel software ha continuato a girare arricchendosi di ulteriori contributi in termini di posizionamento della città in ambiti nazionali e internazionali. Nondimeno, cari compagni, dobbiamo riconoscere che tanto sforzo ha attivato solo parzialmente circuiti virtuosi di crescita e di sviluppo fondati sulle qualità e sulle eccellenze del territorio e della città. Si è pensato che fosse sufficiente una città d'arte e il benessere per stimolare le imprese dell'innovazione a trasferire attività e residenze. La cosa ha funzionato in maniera intermittente. Anche a fronte di agevolazioni significative. A me pare che, nonostante gli sforzi della politica, ci sia ancora qualcosa di incompiuto. Bisogna smuovere le inerzie e scommettere su una identità meno vaga. In caso contrario, come già peraltro avvenuto in altri contesti, non saranno le nostre scelte a orientare e governare i processi ma viceversa. Ma quale deve essere la nostra identità ? L'identità, non è un qualcosa di dato una volta per tutte ma l'esito di una mediazione. Senza la mediazione tra identità e alterità non ci sarebbe innovazione. Saremmo costretti a ripetere stancamente formule ancestrali per noi prive di senso. L'identità la si definisce a partire da quello spazio esistente tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, tra le eredità della storia e la nostra volontà di determinarne una. Il nostro destino è in parte scritto: quello di essere una città d'arte e di storia che ha tentato di conservare integro un tessuto urbano di pregio. Una città che vanta grandi risorse materiali e immateriali, storiche ed umane. Però bisogna sfuggire dall'idea che il patrimonio culturale sia una specie di risorsa naturale, da smerciare al miglior offerente. Questa idea conduce alla “Venezianizzazione” di un paese. Il patrimonio da solo non basta. È, al contrario, necessario far leva sul patrimonio per generare circoli virtuosi. Il comparto dovrebbe rappresentare un'area in cui si sperimentano soluzioni innovative che trascinano l'intero sistema. Pensiamo, ad esempio, al vino e alle produzioni agroalimentari di qualità. In questo periodo le cantine, i produttori, le associazioni di categoria e i consorzi riflettono sul futuro, sul da farsi. Ritengo sia un bene. Però, dovremmo fare un qualche sforzo in più e integrare il comparto del vino con le altre risorse del territorio – quelle del turismo – per creare anelli di esperienze in grado di sviluppare sinergie anche impensate. In maniera analoga, dovremmo anche riflettere sulla necessità di qualificare le filiere agroalimentari ed enogastronomiche sotto il profilo della formazione delle risorse umane. Bene allora i corsi di formazione, le occasioni di crescita professionale, la possibilità di individuare percorsi di Alta Formazione universitari. Auspicabile l’innovazione sul versante della commercializzazione e della promozione del marchio territoriale. Dovremmo essere capaci di delineare una nostra identità anche in termini formativi. Non c’è nulla di anomalo nel fatto che una città come Orvieto, che vanta risultati di eccellenza nei settori dell’elettronica avanzata, ospiti il corso di laurea in ingegneria delle TLC. Così come non ci sarebbe nulla di male se potessimo valorizzare, sempre in ambito universitario o post-universitario, la tradizione del design grafico che ha raggiunto, con il compianto e straordinario Piergiorgio Maoloni, risultati di grandezza europea. Il nostro patrimonio culturale da solo non è sufficiente. Lo abbiamo affermato con decisione nel nostro documento programmatico ridando valore al manifatturiero e indicando l’integrazione delle filiere quale vettore di strategie di sviluppo. Ma c'è bisogno di ancora più innovazione. La vera sfida, oggi, non è quella di abbellire le città, bensì quella di creare le condizioni perché esse si trasformino in ambienti stimolanti. Qui veniamo ad un punto dirimente. Sino a pochi anni fa si pensava che fossero sufficienti le infrastrutture per aumentare l'appeal di una città grande o piccola che fosse. Oggi tutto ciò non basta più. Serve il “genius loci”, l'anima di un luogo (e questo per fortuna lo abbiamo); servono anche investimenti per accrescere la densità abitativa, per creare il senso del luogo. Anche questo lo si sta facendo dopo l’aggiornamento del programma del Sindaco. Serve anche dell'altro. Le città italiane, a detta di osservatori esterni, sono spesso “noiose” e poco attraenti per quella che Richard Florida chiama “classe creativa” . Sul tema delle infrastrutture a servizio delle aree produttive, la realizzazione del Casello Nord sulla tratta dell’A1 e il primo stralcio della complanare dovrebbero risolvere gran parte dei problemi di mobilità e di accesso alle aree industriali orvietane. E una volta messa a regime l’infrastrutturazione telematica a banda larga (Consorzio Crescendo), a servizio degli insediamenti produttivi potremo affermare di aver chiuso il cerchio. Sul versante delle imprese manifatturiere si segnala un certo dinamismo, con la ripresa di attività dopo periodi di crisi piuttosto lunghi. Un segnale di ottimismo che fa ben sperare anche per il futuro. Orvieto ha bisogno di prospettive e politiche interculturali. Oggi oltre il 4% della popolazione residente è straniera (e le tendenze ci mostrano un aumento esponenziale). A cosa serve l'interculturalità? Serve a creare un sistema-mondo all'interno del nostro microcosmo. Serve a tessere reti, serve a movimentare le dinamiche di un tessuto sociale. Dobbiamo accompagnare il nostro lavoro sullo sviluppo sociale ed economico con un lavoro culturale e di conoscenza. Di conoscenza perché dobbiamo tornare ad esplorare il nostro territorio – tutto – con grande umiltà e curiosità. E nel guardare il mondo con nuovi occhi, non possiamo pensare di farlo da soli. Sono i cittadini, il mondo delle associazioni, il volontariato, le forze sociali ed economiche i co-autori di un nuovo pensiero e di una nuova forma di politica. Sono loro a prestare ai nostri occhi luce e prospettive. A fianco della progettazione dello sviluppo, dobbiamo volere un partito che si occupi anche della cultura e dei significati simbolici che dovrebbero accompagnare Orvieto in direzione del futuro. Un lavoro culturale che non può prescindere dal mondo della scuola, delle associazioni, delle tante realtà che operano nel quotidiano. E proprio per dare continuità alla rete dei grandi eventi cittadini, mi sembra opportuno cominciare un’opera di valorizzazione del quotidiano culturale: biblioteche, scuole di musica, associazioni e gruppi musicali. Rapidamente su alcuni temi centrali. Caserma Piave – Mi sembra inutile riassumere i passaggi che hanno segnato nel bene e nel meno bene le vicende degli ultimi anni e ultimi mesi. Le conosciamo e abbiamo condiviso, come gruppo consiliare e come partito, le articolazioni più recenti. Sono convinto che sia necessario re-integrare la caserma all'interno della città. Sono pure convinto che questa sia un'occasione per ridisegnare il modello di sviluppo a partire da una idea complessiva di città e non isolandone un pezzo e facendo leva su di esso. Per questo il nostro partito ha sostenuto con convinzione la necessità di inserire il progetto di rifunzionalizzazione dell’ex caserma all’interno dalla riqualificazione complessiva del centro storico. Bilancio comunale – Le difficoltà emerse negli ultimi mesi ci obbligano ad un impegno supplementare in termini di rigore e responsabilità. Maggiore trasparenza e maggiore condivisione degli obiettivi ci avrebbe permesso un intervento più tempestivo ed efficace. Mi avvio verso la conclusione raccontandovi il partito che ho in mente. Un partito che sappia far propria la richiesta di partecipazione democratica che spinge dagli iscritti, dai simpatizzanti e dalla società civile. Un partito che non abbia timore di cedere quote di potere verso la base e che non tema il confronto con posizioni differenti. Un partito che si metta in ascolto della società e che sfugga al complesso dell’autosufficienza per mezzo di un confronto sempre aperto. Un partito che lavori per la pace, per la laicità. Un partito moderno, aperto alle innovazioni. Un partito che sappia innovare la propria capacità di comunicare con gli iscritti e con la società civile. Un partito che sia anche un vettore di cultura nuova. Un partito autorevole che recuperi il piacere della politica intesa come progetto condiviso, come sfida, costruzione collettiva e solidale. Un partito radicato nella propria storia, nel suo essere stato presidio di dignità e di umanità, di diritti e di innovazione sociale. Un partito dei cuori, delle emozioni, dei sentimenti.

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