cultura

Corpus Domini: la Carne della verità.

giovedì 15 giugno 2017
di Mirabilia-Orvieto
Corpus Domini: la Carne della verità.

Raffaello Sanzio: La messa del miracolo di Bolsena, Stanze Vaticane.

"Colui che mangia me vivrà per me." (Gv 6, 57)

"Colui che mangia me...". Parole incredibili per quanto incomprensibili. Certo, se pensiamo ai tanti fedeli che la domenica vanno in Chiesa per comunicarsi con il corpo di Cristo, cosa c’è da meravigliarsi?
Ma quando Gesù pronunciò per la prima volta queste parole a Cafarnao, dentro la sinagoga, le cose furono ben diverse: gli ascoltatori non potevano credere alle loro orecchie: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?” (Gv 6,52).
Infatti, in quel momento, Gesù stava pronunciando uno dei suoi memorabili, per quanto enigmatici, discorsi. Oggi sembrerebbe difficile provare stupore. Si presume di sapere già tutto o quasi sull’eucarestia, mettendola tranquillamente tra le cose in nostro possesso.
Per avvicinarsi un po’ al senso di quel racconto bisogna fare un salto nel tempo e trovarci lì, nell’attimo in cui Gesù parlò.
Ma andiamo per ordine.
Cafarnao era un villaggio sul lago di Tiberiade, dove l’apostolo Pietro viveva e svolgeva la sua attività di pescatore.
I discepoli giunsero in quel luogo dopo una traversata in barca dato che, la sera prima, si trovavano dalla parte opposta del lago. La Scrittura sottolinea l’inizio di quel viaggio a Cafarnao con l’espressione “si avviarono verso l’altra riva” (Gv 6,16), parole che, al di là della semplice cronaca, nascondono in realtà un loro significato: nella Bibbia “passare all’altra riva” vuol dire entrare in un nuovo modo di vedere e di capire le cose.

Resti archeologici della Sinagoga di Cafarnao.

Quando Cristo fa il suo ingresso nella sinagoga va subito al punto, identificandosi come il cibo dato per essere mangiato: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna...” (Gv 6, 54). Di cosa sta parlando? La sua affermazione è forse l’invito a compiere un atto di cannibalismo (fu proprio questa l’accusa che mossero ai primi cristiani)? No di certo.
Allora cosa voleva intendere veramente? Forse si stava riferendo all’ultima cena? Se fosse stato così avrebbe dovuto parlare al futuro, dicendo non “chi mangia e beve”, ma “chi mangerà e berrà”.
L’affermazione doveva avere sicuramente un altro significato. Quale?
Tutto potrebbe diventare più chiaro se pensiamo che l’intenzione di Gesù era quella di richiamare alla mente dei suoi ascoltatori una delle immagini più impressionanti della Bibbia, e precisamente quando la gloria del Signore apparve al profeta Ezechiele e, prima di inviarlo agli israeliti, lo invita a mangiare il “rotolo” delle Sacre Scritture.
Gesù è dunque quel “rotolo” che gli ebrei di Cafarnao sono invitati a mangiare in quel momento: la visione di Ezechiele si stava compiendo sotto i loro occhi.
Ora, la Parola pronunciata da Dio per la salvezza di Israele diventa cibo da mangiare e bere. Nel luogo considerato sacro presso ebrei, il Tempio della Parola di Dio, cioè la sinagoga, il falegname di un insignificante villaggio della Galilea dichiara di essere la Sapienza personificata, e come tale, invita tutta l’umanità, affamata e assetata di verità e di senso, a sedere a mensa con Lei o, meglio, con Lui: “Mangiate il mio pane e bevete il vino - dice infatti il libro della Sapienza - che io ho preparato per voi” (Proverbi 9,5)...e Cristo ribadirà a Cafarnao “la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda” (Gv 6,55).

Ugolino di Prete Ilario: Gesù nella sinagoga di Cafarnao, cappella del Corporale-Duomo di Orvieto.

La novità portata dal Messia è sconcertante. Finalmente quel Dio annunciato dalle Scritture, ora si può non solo udire, ma vedere e toccare.
Non è un dunque un caso che nella medioevale Cappella del Corporale del Duomo di Orvieto, affrescata da Ugolino di Prete Ilario (1364), chi si disponeva a celebrare il sacramento eucaristico veniva invitato a volgere la mente e il cuore alle parole e ai gesti di Gesù nell’ultima cena, dipinta proprio sopra l’arco d’ingresso, di fronte all’altare e alla reliquia del miracolo di Bolsena; ma accanto è proprio la scena del discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao.
Qui Cristo-maestro viene raffigurato al centro dell’assemblea con un’ostia in mano, mentre sta facendo la sua catechesi sul pane eucaristico: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51).

Ugolino di prete Ilario: L’ultima cena, cappella del Corporale-Duomo di Orvieto.

La gente di Cafarnao non sembra pronta a ricevere una simile rivelazione, perché non riesce a comprendere che cosa sta succedendo. Se fossero vere quelle parole, ora Dio avrebbe un nome, un’ identità, un volto, un corpo, quando nessuno, fino a quel momento, aveva mai visto Dio “faccia a faccia”. Quel Dio di cui, secondo la Legge, non era possibile farsi immagine alcuna, è lì, davanti a loro, in carne ed ossa, finalmente visibile e palpabile. Ma essi, in realtà, non possono comprenderlo, perché dovrebbero lasciarsi trasformare dalla sue parole, ed è proprio questo che li disturba e li spaventa.
Il problema dei suoi ascoltatori è quello di stare lì per cercare la verità e non volerla vedere. Fin dai primi secoli sarà proprio questa la “tentazione” della Chiesa, di rendere culto a Dio senza voler coinvolgersi con Lui, come Lui si è coinvolto con gli uomini in Cristo!
Il racconto di Cafarnao mette in luce una grande verità, e cioè che l’umanità di Gesù invece di avvicinare gli uomini a Dio, li allontana. E’ proprio questo l’ostacolo più grande per i suoi discepoli che, dopo averlo ascoltato, commentano così: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?” (Gv 6,60). Paradossalmente, quando la verità si incarna, cioè non è più un ideale astratto, un pensiero filosofico, allora è causa di scandalo. L’evangelista conclude: ”Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” (Gv 6, 66).
Non sono state forse tante le esortazioni di teologi, santi e mistici che invece, con affascinanti discorsi, hanno richiamato l’attenzione dei credenti sul mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio, la cui conoscenza non è affatto contraria alla fede, anzi la alimenta, la accende e la infiamma?
Ricordiamo, ad esempio, l’opera della beata Giuliana in Francia (1191-1258) la quale, circa venti anni prima dell’evento miracoloso di Bolsena (1263), fu determinante nella decisione di Papa Urbano IV di estendere la festa del Corpus Domini a tutta la cristianità.

Anonimo: La beata Giuliana con Urbano IV e San Tommaso.

Durante il tempo in cui Giuliana svolgeva il suo apostolato tra il popolo, ebbe più volte la visione, confessata solo all’arcidiacono di Liegi, Jacques Pantaléon (il futuro papa Urbano IV), di una luna splendente oscurata da un’ombra; quel segno divino alludeva certamente all’eucarestia, il cui significato era stato fortemente e diffusamente messo in dubbio da increduli ed eretici.
E Giuliana, che aveva speso tutta la sua vita per i poveri, ma anche per lo studio e la preghiera, divenne in Europa la paladina della Chiesa contro l’eresia dei Catari, abbracciando senza esitazione la nuova teologia dei monaci cistercensi sul mistero dell’incarnazione di Dio, che ebbe in san Bernardo di Chiaravalle il suo massimo esponente.
Per non parlare poi dell’avvento dell’Umanesimo cristiano che nel ‘500 spese ogni energia per far passare la Chiesa da una visione dogmatica, apologetica e devozionale, ad un’altra più esistenziale, caratterizzata dalla vicinanza di un Dio di infinita “sapienza” e infinito “amore” che, incarnandosi nel Figlio “libro vivo dal cielo mandato” (Ficino), ha elargito agli uomini il dono della conoscenza e della grazia.
Il tentativo di riforma espresso dalla Chiesa rinascimentale, pochi decenni prima della rivoluzione protestante di Lutero, venne magnificamente stigmatizzato in quel tempo dall’arte, facendo giungere a noi grandi capolavori come ad esempio il Giudizio Universale di Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto (1504), dove il culto eucaristico celebrato sull’altare, cioè la vita di Cristo, veniva spiegato con la dottrina escatologica Cristiana, dipinta sulle pareti della Cappella Nova.

Luca Signorelli e Beato Angelico: particolare della cappella di San Brizio.

Non meno significativo è l’affresco sulla “Disputa del Sacramento” di Raffaello Sanzio (1509) a Roma, in cui una schiera di teologi, dottori della Chiesa, filosofi e letterati non esitano ad indicare il Corpo di Cristo, confidando nella capacità dell’anima di trovare la perfetta armonia tra sentimenti e intelletto, un’equilibrio in grado di penetrare e illuminare la profondità del mistero di Cristo nell’eucaristia.

Raffaello Sanzio: La disputa del Sacramento.

E per ultimo arriviamo ad oggi, alle recenti parole espresse nella “Evangelii guadium” da Papa Francesco che, riprendendo le istanze del Concilio Vaticano II, invita la Chiesa a superare la storica divisione tra la presenza di Cristo nella Santa Messa e l’ascolto della Parola di Dio, strumento indispensabile per comprendere la profondità del mistero eucaristico: “Abbiamo ormai superato quella vecchia contrapposizione tra Parola e Sacramento. La Parola proclamata prepara la recezione del Sacramento, e nel Sacramento tale Parola raggiunge la sua massima efficacia”.


A tutti, una felice festività.