cultura

“Made in Italy” . La vetrina di quel che non vogliamo vedere

domenica 7 dicembre 2008
di Carlo Brunetti
“Made Italy”, lo spettacolo andato in scena venerdì 5 dicembre alla Sala del Carmine in Orvieto, ha vinto l’anno scorso il “Premio Scenario 2007”. Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, autori ed interpreti della rappresentazione, all’entrata del pubblico in sala sono già sul palco. Sono vestiti di un solo accappatoio di cui, appena il pubblico ha finito di prendere posto, si liberano improvvisamente per vestire gli abiti di scena. Si comprende subito che è uno spettacolo anomalo, infatti è questo l’aggettivo che più ricorre nelle recensioni che lo hanno seguito. La scena è trasparente in ogni senso, il tecnico della scena è una vera e propria presenza sul palco, muove funi, modifica luci, fornisce oggetti agli attori in modo visibile al pubblico, poi si veste da angelo e recita per tornare quindi a fare il tecnico. Uno spettacolo senza regole, in apparenza senza un percorso unitario di elementi significanti, in realtà una ricognizione tragica dell’esistente. I due attori, molto bravi, guardano fisso il pubblico ingaggiando con questo quasi un corpo a corpo e lo tengono incerto fra il riso, l’angoscia ed il fastidio. La recitazione è costruita sul ritmo, l’emissione delle parole è sincronizzata fra gli attori ed è incalzante, intervallata da coreografie danzate e da brani di musica tra cui si riconoscono Venditti, Vecchioni e i Prozac. Cinquanta minuti senza respiro, tra parole in italiano ed in dialetto veronese, dove allo spettatore non viene risparmiato nulla, dalli frasi retoriche e prive di senso prese dai media, alle bestemmie, alle offese contro gli stranieri prese dalle conversazioni di strada e dai locali. Il gioco verbale degli attori racconta di un’Italia, di una parte d’Italia, coinvolta nell’odio razzista, esaltata nell’idolatria del calcio, persa nella retorica cinica delle televisioni. “Made in Italy” mette in vetrina quello che non vogliamo vedere: l’aggressività, il cinismo, la violenza quotidiana, senza però dare un giudizio, senza porre un punto di vista alternativo. Gli autori si mettono davanti al mondo e propongono al pubblico la loro lettura. Una società pervasa dalla volgarità in tutte le sue forme, un mondo fasullo, come nella scena finale, fatta di statue di gesso recitanti, dove l’unico suono che sembra acquisire significato è “… sghei, sghei, sghei …”. Una sola speranza per il pubblico, non riconoscersi mai in uno spettacolo simile.

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