Madri e "Dissidenti". Cinema e impegno civile si uniscono in una mostra ad "Orvieto Cinema Fest"

A partire da domenica 21 settembre "Orvieto Cinema Fest" ospiterà nella Chiesa dei SS. Apostoli Filippo e Giacomo, la mostra di Fatima Bianchi, con la proiezione del suo mediometraggio "Les Dissidentes" (2024) unito a dei documenti sonori realizzati dall’artista nell’Orvietano, frutto di incontri e dialoghi con donne che raccontano la loro esperienza di maternità.
Fatima Bianchi è una regista e montatrice italiana, ma francese di adozione, che da tempo sta portando avanti questo progetto che va oltre la mera produzione documentaristica. Racconta storie di donne e di madri provenienti da diverse parti dell’Europa e del Mediterraneo, osservando la maternità da un punto di vista anti-retorico, basato anche sulla solitudine, la prigionia e il dolore che questa condizione può far emergere.
Ciò perché, ancora oggi e a diversi livelli in base alle latitudini, la donna è inserita in una cornice patriarcale che la rinchiude in un ruolo di procreatrice e curatrice, una sorta di “Madonna” a cui tendere secondo quello che, in maniera più o meno sottesa, è ancora l’immaginario collettivo. Ma abbiamo chiesto all’artista qualcosa in più.
Per rompere il ghiaccio, possiamo definirla un "cervello in fuga?" Perché dieci anni fa lascia l’Italia per Marsiglia?
Mi sono trasferita a Marsiglia nel 2014 per raggiungere il padre di mia figlia. Ho deciso di lasciare Milano dopo anni di lavoro e di amicizie di lunga data. Dentro di me sentivo il desiderio di un cambiamento: provare a costruire una famiglia, cogliere nuove opportunità lavorative. Speravo di potermi dedicare al cinema documentario in Francia. I primi anni sono stati difficili, ma oggi mi considero felice del mio lavoro di montatrice e regista, e amo profondamente la mia città d’adozione.
"Les Dissidentes" è il film che verrà proiettato durante la mostra. La nebbia, un’isola sperduta nel Mediterraneo, donne che lavorano e lavano lunghe lenzuola nel mare…chi sono queste dissidenti? Perché sono lì?
Nel mio film, immagino un gruppo di donne che hanno rinnegato una visione univoca del ruolo materno, che hanno introdotto un certo disordine nella società patriarcale, ribellandosi al sistema. Ho immaginato una società distopica in cui queste donne hanno osato raccontare il peso del loro ruolo di madri, le loro difficoltà. Alcune parlano anche del pentimento di aver scelto di avere figli. La loro punizione è una prigione a cielo aperto, su un’isola, dove sono esiliate dalla società e costrette a lavare enormi lenzuola bianche, macchiate di sporco, in mare. Un gesto che si ripete all’infinito, in un loop senza fine.
Gli incontri con le madri che ha recentemente avuto qui ad Orvieto sono un po’ il suo modus operandi per raccogliere testimonianze e sensazioni. Quello che è emerso qui a Orvieto ha dei punti in comune con le altre esperienze analoghe in altre città europee o nord-africane? Come si legheranno al film?
Il desiderio di lavorare sul territorio di Orvieto con le madri del posto è nato da una proposta di Stefania Fausto (insieme a tutta l’équipe di Orvieto Cinema Fest) di realizzare una mostra che inaugurerà domenica 21 settembre, in concomitanza con il festival. Ho trascorso due giorni con un gruppo di madri negli spazi yoga di Federica Menenti, per raccogliere le loro testimonianze sonore. Queste verranno rielaborate e accompagneranno la proiezione del film. Lo stesso processo di incontro con le donne del luogo è avvenuto anche in Puglia, con l’associazione Ramdom, a Marsiglia e a Rabat, in Marocco, dove il film è stato diffuso e presentato in diverse occasioni.
Che cosa resta dopo questi incontri? Solo una documentazione sonora o anche delle relazioni?
Ogni volta, gli incontri alimentano il processo creativo del progetto, accompagnano il film e attivano una coscienza, un bisogno di dare uno statuto importante alla parola delle madri. Si formano gruppi di parola che restano attivi nel tempo, creando una rete relazionale, uno scambio di idee e un aiuto reciproco. Credo che questa dimensione umana e relazionale sia fondamentale nella mia pratica artistica, perché è ciò che sta alla base di ogni comunità. Soprattutto oggi, in un periodo storico in cui le madri si ritrovano spesso sole a gestire contemporaneamente figli, casa e lavoro.
Il film riguarda molto anche la sua esperienza di madre. Qual è, secondo lei, l’aspetto più desolante o terrificante della maternità oggi?
Questa è un tipo di ricerca che mi interessa profondamente. Mi interessa capire come ogni Paese si relaziona con la figura materna, quali politiche vengono attuate, quali problematiche emergono, qual è la storia e la mitologia della madre. Ci sono punti in comune e divergenze tra un Paese e l’altro. È desolante vedere come una delle figure più importanti della società, la madre, non solo venga costantemente messa sotto processo da una serie di ingiunzioni sociali, ma sia anche così poco compresa, valorizzata, sostenuta. È desolante constatare l’assenza di dispositivi statali di supporto economico e sanitario nel post-parto. È desolante che si dia per scontato che siano i padri a dover portare a casa il salario, sostenuti da un congedo paterno ridicolo – in Italia, in particolare – facendo un torto sia alle madri che ai padri, e mettendo in crisi la coppia, la famiglia, i bambini.
Nonostante i grandi passi avanti fatti nell’ultimo secolo, da qualche anno spira un forte vento di conservatorismo che vorrebbe ristabilire o, quantomeno, rispolverare principi patriarcali che tutti speravamo, pian piano, stessero tramontando, facendo particolare leva, in maniera propagandistica, sulla sacralità della maternità. Secondo anche queste esperienze raccolte e il suo lavoro, lei come la vede?
Sì, direi che è preoccupante. Cerco di avere fiducia nella resistenza della cultura dal basso, nell’arte e nella possibilità di fare rete insieme. Realizzare questi progetti mi ha dato la possibilità di incontrare persone splendide, che nella quotidianità lottano a modo loro. Esiste una forma di resistenza che possiamo attivare nelnostro piccolo, ed è preziosa. Credo che ci sia una grande paura nell’immaginare famiglie che si allontanano dagli schemi della famiglia eteronormativa e mononucleare, quando invece sarebbe importante chiedersi: di quante persone abbiamo davvero bisogno per educare i nostri figli? Penso al famoso proverbio africano che dice che “per crescere un bambino serve un intero villaggio”. Servirebbe sviluppare una coscienza individuale e politica differente, riuscire a uscire da un sistema individualista e capitalistico.
Per concludere, ci saranno ulteriori lavori e progetti che seguirà su questo tema?
Fare famiglia in modo diverso: è questo il tema che mi appassiona in questo momento. Attendo però a immaginare il mio prossimo step; sto aspettando che la versione lunga delle Dissidenti (il lungometraggio Mater Insula) abbia una prima visione festivaliera, per capire come verrà recepita dal pubblico.

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