Voce, orchestra d'archi e sand art per sensibilizzare sulle "Ladre di sabbia"

"Ladre di Sabbia" non è solo il titolo di uno spettacolo teatrale portato in scena nel pomeriggio di domenica 8 settembre sul palco del Teatro Mancinelli di Orvieto. È la storia vera di tante donne capoverdiane che sono costrette a diventare ladre di sabbia. Un’attività illegale dal 2010, ma anche un’inevitabile necessità se “Sei nata nella parte sbagliata di un’isola che si trova nella parte sbagliata del mondo” come recita Guido Barbieri con voce solida, calda, a tratti commossa.
Fin dai primi minuti nel teatro l’emozione sale man mano che la narrazione avanza, la musica degli archi dell’Orchestra Filarmonica "Vittorio Calamani" diretta dal Maestro Marcello Fera coinvolge, la mano della sand artist Gabriella Compagnone si muove sul piano di vetro sul quale migliaia di granelli di sabbia compongono persone e ambienti.
La voce racconta di donne sconosciute. Di donne semplici, che la vita mette continuamente a dura prova. Sono donne che vivono nel lato povero dell’isola di Santiago, nell’arcipelago che costituisce Capo Verde. Sono donne che hanno figli, mariti invalidi o uomini che si sono da tempo sottratti alle responsabilità familiari, hanno madri che non sanno come farle crescere. Non sono ladre per volontà, ma per necessità.
Il mare regala turismo, tanto turismo, e ricchezza. Ma non per tutti. A queste donne non resta che prendersi la sabbia. Ogni giorno. Elemento richiestissimo dal settore dell’edilizia. Chili e chili di sabbia che scavano sulla riva, ripuliscono dai sassi, accumulano costruendo piccole piramidi. Se lavorano tutti i giorni raggiungono la quantità minima richiesta dai trafficanti per ogni carico così da poter ottenere il compenso di cinquanta dollari che serve per da mangiare e mandare i figli a scuola, a volte in modo che possano studiare loro stesse.
Combattono la fame, la povertà, le difficoltà. Rischiano addirittura il carcere se i poliziotti le colgono sul fatto, ma mai perdono la dignità, la determinazione di sognare un futuro che non le costringa a essere ladre di sabbia per tutta la vita. Tra loro c’è chi vuole continuare gli studi. Magari diventare ingegnere, rimanendo a Capoverde o spostandosi in America Latina o in altri luoghi dove servono strade, ponti, ospedali. Chi ha sofferto vuole dedicare la propria vita ad alleviare le sofferenze altrui.
La musica degli archi non è solo un sottofondo, ma urla la paura di non raccogliere la quantità necessaria di sabbia per ottenere il compenso da parte del trafficante; accompagna il duro lavoro di ogni giorno sulla riva quando rubano la sabbia con una pala; canta con loro quando percorrono chilometri con le ceste cariche di sabbia sulla testa; ride insieme alle donne quando il carico è stato portato al vecchio camion e ciascuna ha ricevuto i 50 dollari.
La voce non è solo una cornice, ma racconta di madri sole; di bambini da istruire e prima ancora da sfamare; della consapevolezza di commettere un reato che però è necessario; dell’umiliazione e della solitudine di una notte in carcere perché i poliziotti non sempre possono volgere lo sguardo da un’altra parte.
La sabbia che scorre sul piano di vetro riflessa poi sul maxischermo non è solo un modo di “disegnare” ma rende visibili quelle donne, ce le mostra mentre lavorano, mentre camminano, mentre piangono, mentre ballano. La mano della sand artist crea istante dopo istante, come un pennello immaginario, un carboncino inesistente, un colore che non esiste, un quadro in continuo divenire. Nel pubblico è palpabile l’emozione che cresce insieme alla storia, alla musica, alle immagini create con la sabbia. Musica, voce, sabbia regalano commozione e rendono giustizia a donne dimenticate facendo conoscere la loro esistenza al resto del mondo.

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