cultura

Il Corpus Domini nella mistica leggendaria

venerdì 9 giugno 2023
di Mirabilia Orvieto

Quando nel 1364 Ugolino di Prete Ilario terminava il ciclo pittorico della cappella del Corporale, era l’epoca di miracoli e leggende, di santi e cavalieri, di perigliosi viaggi alla conquista della Terra Santa e del Paradiso, mentre i sacerdoti erano investiti del massimo potere sulla terra, quello di "mutare la materia in Dio". 

Contro tutte le eresie, la piccola cappella doveva accrescere la fama di una cattedrale innalzata sopra la Rupe per annunciare agli uomini ciò che avrebbe reso più luminosa l’esistenza in un mondo tormentato da guerre, carestie e pestilenze. E mentre città e monasteri ambivano a possedere gocce, fiale o addirittura catini del sangue di Cristo dal potere miracoloso, nella città di Orvieto si venerava in un prezioso reliquiario il prodigio eucaristico di Bolsena che fece della mistica cappella il tempio dell’Inesprimibile, dell’Invisibile, dell’Ineffabile. 

Di fronte a quel lino insanguinato, che spinse papa Urbano IV a promulgare nel 1264 la festa del Corpus Domini per tutta la cristianità, i credenti potevano fortificare la loro fede vacillante fissando lo sguardo sul segno divino che si era manifestato in mezzo agli uomini come teofania biblica: nella cappella del Corporale la madre Chiesa raccontava dunque ai suoi figli caduti nel sonno del peccato e dell’eresia, la sua storia e il senso vero delle storie del mondo per guidarli verso il Paradiso.Una tra le più celebri di queste storie, che si affermò fin dai primi secoli del cristianesimo, ha inizio dietro l’altare con la scena della Deposizione di Cristo. Qui appaiono Maria, la Maddalena e le donne che si stringono addolorate attorno al corpo di Gesù, ormai senza vita, insieme all’apostolo Giovanni, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, raffigurato con un vaso in mano nel momento in cui, secondo i vangeli apocrifi, ricevette l’ispirazione di raccogliere il sangue della Redenzione. 


Giuseppe d’Arimatea, cappella del Corporale

D’allora fiorirono migliaia di aneddoti e racconti sulla reliquia più bramata dal cristianesimo divenuta poi col tempo il calice dell’Ultima Cena, ovvero il santo   Graal, che entrò ben presto nell’immaginario popolare. Era il 1099 quando, sotto la guida di Goffredo di Buglione e Raimondo IV di Tolosa, l’esercito cristiano occupava trionfante la Città Santa dopo un mese di assedio. Si diceva che furono i soldati di Cristo, simbolo della chiesa militante e virtuosa, a ritrovare nei sotterranei del Monte del Tempio il sacro oggetto. Sarà proprio l’esercito crociato, ritiratosi ad Acri con la perdita di Gerusalemme, il protagonista dell’epica battaglia contro i saraceni che Ugolino sembra raffigurare in tre grandi scene a sinistra dell’altare. 

Era il 1291, un anno dopo l’inizio della costruzione del duomo di Orvieto, quando la roccaforte cristiana di Acri venne assediata ed espugnata dall’imponente esercito musulmano, in tutto 160.000 fanti e 60.000 cavalieri che si impose sull’eroica resistenza di 14.000 fanti e appena 700 cavalieri crociati, mettendo così fine al sogno dell’Occidente di liberare la Terra Santa dagli infedeli. In quell’infausto giorno, riporta la scritta a commento della scena, il re saraceno disse al cappellano dei crociati: “Mostrami come il pane diventa il corpo di Cristo e tu e i tuoi soldati sarete liberati, altrimenti tu e loro morirete”. All’elevazione dell’ostia, questa si tramutò improvvisamente in una piccola figura umana, con una croce in mano, che zampillava sangue nel calice della messa. A tale vista il re e il suo esercito si convertirono e i cristiani furono liberati. 


Il miracolo eucaristico nella battaglia fra crociati e musulmani

Ma quel prodigio eucaristico non rievocava forse la leggendaria apparizione del Graal raccontata nel romanzo del chierico Robert de Boron ‘Joseph d’Arimathie o l’Estoire dou Graal’ e, prima ancora, nel ‘Conte du Graal’ di Chrétien de Troyes? Nella leggenda, scritta tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, si narra infatti del cavaliere Galaad o Galvano che, durante una liturgia nella cappella del castello di re Artù, vide apparire il sacro vaso con Giuseppe d’Arimatea che prendeva da esso un’ostia, mentre dal cielo discendeva “una figura simile a un bambino dal corpo tutto nudo e sanguinate che entra nel pane e lo trasforma in una figura umana, la quale distribuisce ai presenti l’eucarestia…mentre dalla punta di una lancia stillavano gocce di sangue vermiglio che cadevano dentro il calice e due angeli che portavano candelabri d’oro con dei ceri accesi”. Quel Bambino passionato, ispirato al messia-fanciullo del profeta Isaia e all’agnello immolato del libro dell’Apocalisse, doveva far comprendere meglio dei sermoni il mistero della Transustanziazione in cui Cristo tornava a incarnarsi ogni volta nell’ostia consacrata, continuando a versare dal suo corpo il sangue della Redenzione. 

Ebbene, l’ostia, il bambino, la croce, il sangue, il calice e persino le due candele, una retta dal chierichetto e l’altra posta sulla mensa, confermavano che sull’altare del campo di battaglia non si trovava un calice qualsiasi, ma la stessa coppa dell’Ultima Cena dove si era nuovamente riversato il sangue della Passione. E davanti a tale visione, cristiani e musulmani, vinti e vincitori, s’inginocchiarono in adorazione dell’eucarestia!


Discorso eucaristico di Gesù nella sinagoga di Cafarnao

Nella cappella del Corporale miracoli e leggende dovevano perciò esaltare la verità della Transustanziazione, proclamata nel IV Concilio Lateranense del 1215, e allo stesso tempo invitare i fedeli a superare il dubbio della fede per aprirsi alla visione del mistero di Dio racchiuso nell’eucarestia. Così il mito cristiano del Graal ridava forza al divino Sacramento, svelando il suo ineffabile potere nella Chiesa e nel mondo a dimostrazione di un Dio operante in mezzo agli uomini. 

Teologia e leggenda si compenetravano a tal punto che in quel tempo la storia dell’eucarestia era la storia del Graal, il potere dell’eucarestia era il potere del Graal, la grazia dell’eucarestia era la grazia del Graal, poiché non c’era nulla di più vero, di più prezioso, di più desiderabile, di più benefico del Corpo e del Sangue di Cristo che avrebbe ricolmato il cuore e la vita degli uomini di ogni bene spirituale e corporale. E se il santo Graal veniva decantato nei poemi medioevali come “Argentato, Luminoso, Fragrante, Potente, intagliato con i segreti della benedizione… dal quale spira una soave fragranza, come se vi fossero state sparse sopra tutte le essenze del mondo”, Papa Urbano IV esaltava nella festa del Corpus Domini tutta la sublimità del divino sacramento con queste parole:  

"Memoriale mirabile e meraviglioso, 
dolce e soave, carissimo e prezioso… 
in esso sono tutte le delizie e i sapori più delicati, 
nel quale si gusta la stessa dolcezza del Signore".

(Bolla Transiturus, 1264)


voce di Sophia Angelozzi       
 
Foto dell'Opera Del Duomo, tratte dalla pubblicazione "Il Duomo di Orvieto. Nel Segno del Miracolo" (Ed. Mirabilia Orvieto)