cultura

Capolavori invisibili: dal dubbio alla visione

sabato 8 agosto 2020
di Mirabilia-Orvieto
Capolavori invisibili: dal dubbio alla visione

Prima parte

A cosa serve l’arte? Cosa ci aspettiamo da essa?
Per rendersi conto del valore dei tesori d’arte, sempre più spesso considerati un ‘prodotto’ del marketing turistico, non bisogna fermarsi a quello che si vede. Un turista che si trova ad ammirare la facciata mozzafiato del duomo di Orvieto pensa che basta scattare qualche foto o leggere qualche guida ‘fai da te’ per aver goduto di un simile capolavoro.
Ma è bene ricordare che, in tutti i capolavori, ogni artista non ha mai la preoccupazione di fare bella la sua arte, quanto piuttosto di comunicare qualcosa di esistenziale, di vitale, di così attuale da divenire eterno. Il rischio è dunque quello di rimanere in superficie, senza conoscere e interpretare la storia, senza raccontare il tema e i dettagli dell’opera, senza averne una visione globale in grado di attrarre e di parlare ancora allo spettatore.

Per questo non bisogna mai dimenticare che un’opera d’arte è lì per dirci qualcosa di essenziale sulla vita, sul mondo, su Dio e sul destino dell’uomo: “Camminiamo in una chiesa - sottolinea Tomaso Montanari, storico dell’arte - letteralmente sui corpi dei nostri progenitori sepolti sotto i pavimenti, ne condividiamo le speranze e i timori guardando le opere d’arte che loro commissionarono e realizzarono, e ne prendiamo il posto come membri attuali di una vita civile che si svolge negli spazi che hanno voluto e creato per loro stessi e per noi”. Per questo c’è una modalità contemplativa di rapportarsi con un capolavoro. Bisogna alimentare, nutrire, educare uno sguardo contemplativo che rende visibile l’invisibile, piuttosto che cercare di ‘catturare’ le immagini per impadronirsi di esse, volendone decifrare subito i significati con il rischio di banalizzarle rincorrendo il passato senza mai riuscire a comprenderlo e attualizzarlo!


Cappella del Corporale, foto di Carmelo Vecchio

Per capire di che cosa è fatto uno sguardo contemplativo basta entrare a visitare la Cappella del Corporale nel duomo di Orvieto. Siamo a pochi anni dall’inizio della grande tragedia della peste del 1348. In quel tempo l’opposizione dei numerosi movimenti ereticali si stava facendo sempre più forte, mentre l’entusiasmo che aveva accompagnato la costruzione del duomo (1290) e, prima ancora, il dono divino del miracolo di Bolsena (1263) si era via via affievolito. Fu allora deciso di ridare nuovo splendore alla città attraverso la realizzazione di una cappella in cui esporre la reliquia del miracolo di Bolsena. Lo spazio fu completato nel 1356 e decorato poi da Ugolino di Prete Ilario con un grande programma iconografico, dettato dal vescovo Guido Beltrame Monaldeschi, che doveva armonizzarsi perfettamente con l’atmosfera mistica e solenne della cattedrale.

Il dramma delle malattie, della fame e delle guerre, aveva risvegliato negli uomini il terrore della morte e del destino dell’anima che cercava sulla terra il mezzo per ottenere “aiuto di vita e di salvezza”; nelle preghiere quotidiane l’uomo del medioevo non mancava mai di rivolgersi a Dio dicendo: “A subitanea et improvvisa morte, libera nos, Domine” e cioè “ Evitaci, Signore, di morire di colpo, senza aver avuto il tempo di confessarci e di comunicarci”. La morte non era solo la fine del corpo, ma il preludio al giudizio divino dell’anima e diventava perciò indispensabile morire senza peccati e “in pace con Dio”.
In una profonda crisi sociale e religiosa, i più grandi teologi e mistici, da san Francesco a Ugo di san Vittore, da san Bonaventura a San Tommaso, si spesero con sapienza dottrinale per difendere e penetrare la verità racchiusa nel mistero del corpo del Signore, ormai al centro dell’attenzione anche grazie ai numerosi miracoli eucaristici. Quello di Bolsena, avvenuto nel 1263, si rivelò più di un semplice miracolo.


L’esposizione del Corporale davanti agli orvietani, Ugolino di Prete Ilario

Quando il movimento dei Catari minacciava di scardinare in tutta Europa le verità del cristianesimo, negando i dogmi della fede, la Cappella del Corporale del duomo di Orvieto si apprestava a ribadire, contro la perfidia e l’insania degli eretici, la verità della presenza di Cristo nell’eucarestia che in quel tempo si affermava come un potente simbolo di unità civica e religiosa. La visione della Beata Giuliana a Liegi, la presenza della setta dei Catari in tutta Europa, la sede papale a Orvieto, i profondi dubbi che perseguitavano la Chiesa del tempo, facevano del miracolo eucaristico di Bolsena un segno inequivocabile della provvidenza divina rivolto al mondo conosciuto e a tutta la Chiesa.

A questo si aggiunse il suggestivo racconto del prodigio, trascritto su pietra nel 1597 in un angolo della Cappella del Corporale, che lasciò impressionati i fedeli e le autorità ecclesiastiche del tempo: “Mentre costui celebrava qui la messa e teneva l’ostia nelle mani sopra il calice, si mostra una cosa meravigliosa, da far stupire, per il miracolo, sia gli antichi tempi, che i nuovi. Improvvisamente quell’ostia apparve, in modo visibile, vera carne e aspersa di rosso sangue, eccetto quella sola particella, che era tenuta dalle dita di lui. Infatti, ciascuna goccia di sangue, che da quella scaturiva, tingendo il sacro corporale, vi lasciò impresse altrettante figure a somiglianza di uomo”.

Chi attraversava il cancello d’ingresso della Cappella del Corporale non entrava da turista in un museo, ma aveva ben chiara l’importanza che questo gesto aveva per la propria vita e per quella di tutta la comunità lì riunita. I fedeli non si trovavano di fronte a delle semplici decorazioni, perché quel luogo era un ‘luogo particolare’ che chiamava la comunità cristiana a realizzare in quel momento ciò che era lì rappresentato, e cioè il presente di quel passato e anche di quel futuro. Ci si trovava immersi in uno spazio completamente ricoperto di immagini.


Mosè nel deserto, Cappella del Corporale

Ai lati dell’altare apparivano le storie dei più importanti miracoli eucaristici e di quello di Bolsena, di fronte la scena della crocifissione di Cristo e dei due ladroni, e in alto alcune pagine della Sacra Scrittura: una straordinaria scenografia fatta trasmettere il significato dell’eucaristia. Nelle vele sopra l’altare si trovano infatti i racconti biblici dell’Antico Testamento: dall'incontro di Abramo con il re e sacerdote Melchisedek, in cui il Patriarca riceve il dono del pane e del vino; al viaggio di Elia verso il monte Oreb, dove il profeta viene sfamato con il pane degli angeli; fino al racconto dell’esodo verso la Terra promessa, che mostra Mosè mentre indica la manna discesa dal cielo, con tutto questo il popolo cristiano veniva esortato a non dubitare mai della presenza di Dio simboleggiata dal dono del pane e del vino, cibo spirituale donato da Dio per il pellegrinaggio terreno del popolo d’Israele.

Ma per ricevere il corpo di Cristo e la sua salvezza bisognava guardare all’insegnamento degli Apostoli e dei Padri, raffigurati nella crociera all’ingresso della Cappella. Con l’esempio della loro vita, essi indicavano ai fedeli il cammino da percorrere, cammino che rievocava le tappe dell’iniziazione cristiana della Chiesa primitiva: solo l’abbandono dell’idolatria del mondo (la conversione di Sant’Agostino), la confessione dei peccati (la catechesi di san Paolo prima di ricevere l’eucarestia) e la comunione mistica col corpo e sangue di Cristo (la visione di san Tommaso) avrebbe convertito, purificato e santificato l’anima dei credenti nel cammino verso la salvezza eterna.

L’istruzione si concludeva con la quarta e ultima vela (il cavaliere dell’apocalisse). Qui, grazie al potere dell’eucarestia donata da Cristo a tutte le Chiese, simboleggiate dai sette candelabri, ogni credente era invitato a intraprendere, senza dubbio e incredulità ma in ‘visione’, il suo combattimento contro le forze del mondo e del male, certo di raggiungere presto il premio promesso.


Il cavaliere dell’apocalisse, Cappella del Corporale

La Cappella dischiudeva così, poco a poco, con spirito poetico e profetico, il suo messaggio: solo la fede nell’eucarestia, pane disceso dal cielo, avrebbe sciolto la Chiesa dall’antico peccato del popolo d’Israele che, dopo aver visto segni e prodigi, continuò a dubitare della presenza del Signore dicendo: “Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?” (Esodo 17, 7).