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Ujw #27, il diario di Elio Taffi - Terza giornata. Le tre S del jazz: Salis, Supnick, Scofield

martedì 31 dicembre 2019
di E.T.
Ujw #27, il diario di Elio Taffi - Terza giornata. Le tre S del jazz: Salis, Supnick, Scofield

Vivere da Elio Taffi è impegnativo; non ricordavo quanto duro fosse mettersi in piedi al mattino.

Per fortuna che il caffè macchiato di Tommaso, all’Officina del Gelato, fa miracoli! Se si accompagna, poi, con una delizia al pistacchio…

Perfettamente rimesso in sesto, decido di assistere all’uscita trionfale dei Funk Off. Umbria Jazz non può prescindere da questi funamboli musicisti, i quali recano una tale simpatia da essere portatori sani di allegria in quattro quarti. Salgo sino all’ultimo piano del Palazzo del Capitano del Popolo e mi godo la loro prima stazione musicale; i ragazzi escono dall’Albergo Reale e proprio di fronte a me offrono i primi due vibranti pezzi. Pian piano monterà attorno a loro un serpentone umano che andrà in sorridente processione nella marcia musicale per le vie del centro.

Che magia e che energia!

Mi dirigo verso piazza Duomo; al Museo Emilio Greco è di scena un duo che sta facendo parlare benissimo gli addetti ai lavori: Antonello Salis, fisarmonica e pianoforte, e Simone Zanchini, fisarmonica e live electronics. Il titolo della performance, “Su la testa”, rivela immediatamente il fulcro musicale che ne è alla base: l’omaggio alla creatività di Ennio Morricone. Salis al pianoforte e Zanchini alla fisa mi sembrano l’accoppiata più equilibrata di quelle proposte; in fondo, Salis dà un senso alla definizione di strumento a percussione, attribuita al pianoforte: basta vedere il modo in cui lo “suona”, o sarebbe più giusto dire lo “percuote”.

Su questo efficacissimo sostegno ritmico, Zanchini ricama ed improvvisa da manuale. Ogni tanto, al pari di perle preziosissime, Antonello fa emergere dal suo marasma sonoro lucenti notine melodiche, che risultano ancor più significative. “C’era una volta il west”, “Il buono, il brutto, il cattivo”, “Per un pugno di dollari”… Solo alcuni degli universi sonori morriconiani che i due ragazzi terribili destrutturano e ricostruiscono secondo le rispettive sensibilità; notevole il livello di empatia fra i due, non è facile capirsi così a fondo e pure in anticipo. Rimango mezz’ora al concerto, durante la quale mi godo una gran bella musica; devo riconoscere la bontà del giudizio dei colleghi che, il giorno prima, mi avevano elogiato l’accoppiata Salis-Zanchini.

Il successo di questa XXVII edizione di Umbria Jazz Winter è chiaro: basta osservarsi intorno e notare tutta la gente in giro; al Palazzo del Capitano è impressionante la lavagna che comunica i concerti già al tutto esaurito.

Dopo pranzo mi reco al Palazzo dei Sette; l’intuito mi porta a scegliere il live di Supnick Swing. Elio Taffi ci prende ancora: l’esibizione sarà stellare!

Supnick è un polistrumentista (tromba, trombone, cornetta) che sa anche ben cantare; il trombone è il suo primo amore.

Taffi ama l’old style e Michael Supnick ne è strepitoso alfiere; il sassofonista Red Pellini rappresenta la ciliegina sulla torta. Trascorro un’ora meravigliosa, alla riscoperta del primo jazz, quello verace degli anni 20, che rimane sempre uno stile insuperabile.

“Back home again in Indiana”, “Dream a little dream of me”, “Sweet Georgia brown”… Che repertorio, e che gusto! Michael ha classe da vendere, non c’è che dire, un campione del jazz delle origini, tra New Orleans, Dixieland e Swing. E le improvvisazioni del Pellini sono da brivido, per equilibrio, estetica ed inventiva; alcune cellule melodiche da “Un americano a Parigi” e “Rapsodia in blu” si materializzano, ogni tanto, nelle lunghe cadenza e siamo, inevitabilmente, all’apoteosi!

Quattro parole con Michael Supnick.

Mi è piaciuto moltissimo il vostro spettacolo; bravissimi e generosi! Alla fine dell’anno tutti vogliamo sorridere di più e la vostra musica contribuisce a ciò. Questa è la vostra missione, il vostro stile o ne è una parte?

È la parte predominante, amiamo divertirci e divertire.

Perché si è avvicinato alla musica? O forse è la musica che si è avvicinata a lei?

Io ho sempre avuto musica in casa; i primi ricordi, o quasi ricordi, risalgono a quando avevo 3 o 4 anni ed abitavo in una cittadina vicino Boston. Mia madre era una studente ma cantava e frequentava Bob Dylan, Joan Baez; abbiamo avuto alcuni di questi personaggi in casa. Ho sentito musica sempre e da sempre.

Il suo strumento?

Io sono trombonista.

È per lei la prima volta, questa, in cui viene a suonare ad Orvieto?

Sono stato un paio di volte nella vostra città ma non in situazioni collegate ad Umbria Jazz Winter. Ricordo invece benissimo che 22 anni fa ebbi un incidente sull’autostrada, era il 26 dicembre. Fui portato immediatamente all’ospedale di Orvieto, del quale ricordo l’efficienza e la professionalità.

Che idea si è fatto di questo festival?

Fantastica, non potrebbe essere diversamente. Ho sentito tanta bella musica, diversa da quella che faccio io, ma costruita con ispirazione. Orvieto è meravigliosa per accogliere un festival di jazz.

Il suo italiano è veramente ottimo, complimenti.

“Ma che stae a di, aho?" Io sto in Italia da 35 anni, mi sono pure sposato qui.

Quindi è italiano!

Si, si, confermo.

Ai suoi occhi esperti, in quale fase dell’evoluzione del jazz oggi ci troviamo? Qualcuno pensa che la grossa popolarità ne abbia iniziato la fase decadente.

Il jazz non è così popolare, è sempre una cosa di nicchia, credimi. In questo momento sono molto contento perché io faccio la musica degli anni venti e stiamo per entrare negli anni venti del 2000; quindi sarò nuovamente un musicista degli anni venti, a me piace pensare a questo modo. Tutto il resto sono chiacchiere che non hanno valore.

Il jazz anni venti e trenta è il primo jazz di cui abbiamo contezza, vero Maestro?

Eh si, questo è stato l’inizio dell’avventura; qualche collega dice che questo è l’unico jazz, io non lo credo ma di sicuro è stato il primo jazz e questo si dimentica spesso.

La sua melodia, quella che sente di più?

“Stardust”, “When the Saints go marching in”! La musica del popolo, senza dubbio. Nel 1938, mi sembra il 16 febbraio, il jazz è entrato dentro la Carnegie Hall, il tempio della musica classica. Lì diventa musica da concerto e prende un’altra strada. Prima, invece, si trattava di musica popolare, anche da ballo, musica per funerali, per le feste dei paesi. Una musica che, al pari della tradizione bandistica in Italia, accompagnava la vita della gente semplice, dalla nascita alla morte. Io faccio pure jazz club ma amo il contatto con la gente e se questa vuol ballare, che balli pure!

Grazie, Maestro. È stato piacevolissimo conversare con lei per questi cinque minuti.

Ancora col sorriso nel cuore mi dirigo verso il Teatro Mancinelli, ho intenzione di concludere alla grande una splendida giornata di musica.

“The magic and the mistery of the Beatles” è un progetto spettacolare che coinvolge una pletora di signori musicisti: l’Umbria Jazz Orchestra e l’Orchestra da Camera di Perugia, una sezione ritmica irripetibile con Jay Anderson al contrabbasso e Lewis Nash alla batteria, la regia musicale di Gil Goldstein (anche arrangiatore di tutte le partiture), la chitarra stellare di John Scofield.

L’idea di riproporre, con una siffatta smagliante strumentazione, una selezione del repertorio dei Fab Four si rivela vincente sin dalla prima nota intonata. Le melodie dei Beatles sono splendide ed arcinote ma è il lavoro musicale che sta alla base di questa reinterpretazione che trasuda genialità.

Gli arrangiamenti di Goldstein sono meravigliosi, rispettosi delle capacità idiomatiche dei singoli strumenti e al tempo stesso carichi di passione. Il cuore pulsante Anderson-Nash è li, rigoroso, ad illuminare il tracciato. Suggestive le fiammate degli ottoni, che ricreano i colori delle mitiche e virtuose big band americane. Su tutti, lui: John Scofield, fra i più celebrati chitarristi al mondo; e giustamente.

Il risultato finale è qualche cosa di incredibile, un vero tripudio di pennelate e macchie sonore; Scofield, professionalissimo da paura, dispensa note sagge e figurazioni rapidissime di sommo livello, confermando di essere un vero mostro sacro dei tempi attuali. “Let it be”, questo “Let it be”, diverrà un ricordo sublime ed indimenticabile.

Con questo straordinario concerto decido di concludere la mia terza giornata ad Umbria Jazz Winter, come avete capito sgargiante ed entusiasmante.

Prima di uscire dal Mancinelli, entro al buio nel Ridotto del Mancinelli, apro di sottecchi una finestra e… Sotto di me si è ricreata la magia travolgente dei Funk Off.

Evviva Umbria Jazz Winter! Però richiudi la finestra, Elio…

A voi il buongiorno, a me la buonanotte.


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