cultura

Ujw #27, il diario di Elio Taffi - Seconda giornata: UJ4KIDS e i virtuosismi di Rea

lunedì 30 dicembre 2019
di E.T.
Ujw #27, il diario di Elio Taffi - Seconda giornata: UJ4KIDS e i virtuosismi di Rea

L’impegno di Elio Taffi inizia presto. Al Teatro del Carmine avranno luogo tre spettacoli mattutini (alle ore 10, sino alla fine di dicembre) appartenenti ad “Umbria Jazz 4 Kids”, costola ufficiale di Umbria Jazz Winter avente l’obbiettivo di attirare giovani e giovanissimi verso il linguaggio del jazz. La Scuola Comunale di Musica “Adriano Casasole” di Orvieto e l’Associazione “Il Jazz va a Scuola” hanno dato vita convintamente al progetto sfornando tre diversi eventi, ognuno con una struttura identitaria compiuta ed interessante.

Assisto ad un gradevole spettacolo, a cui partecipano attori, musicisti e, soprattutto, tanti bambini e ragazzini accompagnati dalle rispettive famiglie; prende vita una sorta di storia fantastica di Orvieto, partendo dalle origini etrusche e passando, inevitabilmente, per il glorioso periodo medievale, il tutto alla riscoperta degli strumenti e delle tradizioni musicali del territorio. Gli occhi sereni ed innocenti dei nostri figli si illuminano alla simpatica narrazione. La musica è trascinante. La storia, la nostra storia è già di per sé così affascinante. Tutti, pure i più piccini, si ritrovano negli stilemi del comune passato che, se ancor non vissuto e conosciuto, è presente nel dna degli orvietani; il colpo di scena, spettacolare e musicale al contempo, è il passaggio dalle rullate semplici ed ossessive dei tamburini dello spettacolare corteo di costumi artistici del Corpus Domini ad un brano jazz originale come “C Jam Blues” di Duke Ellington, basato su uno schema ritmico simile. Fantastico!

Talora non serve inventare nulla per emozionare, basta solamente guardare la realtà con occhi puliti (come quelli dei bambini) per riuscirci.

Scambio due parole con il Presidente della Scuola di Musica, Gabriele Anselmi.

Interessante l’abbinamento della storia e dei musicisti locali con la grande tradizione internazionale del jazz; come è nata l’idea?

L’idea nasce dalla curiosità di aver visto, la scorsa estate a Perugia, Umbria Jazz 4 Kids, realizzato dalla Fondazione Umbria Jazz e dall’Associazione Il Jazz va a Scuola. Al ritorno da Perugia, in macchina, non ho pensato che a come replicare questa esperienza a Orvieto; non ho successivamente abbandonato l’ufficio cultura del Comune né quello del Sindaco per ottenere sostegno a questa iniziativa. Dalla fine di ottobre abbiamo iniziato a lavorarci, ottenendo da subito l’interesse dell’istituzione Umbria Jazz. Inizialmente sarebbe dovuto essere un solo giorno, poi abbiamo realizzato invece tre spettacoli. Il primo sulla storia e tradizioni di Orvieto ed il secondo su Gianni Rodari; il terzo, in collaborazione fra gli altri con le edizioni Vita Activa e l’Unitre di Orvieto, consisterà nella presentazione di un bel libro-fiaba per ragazzi.

Con la straordinaria presenza di spettatori che ho personalmente riscontrato stamani, possiamo affermare che Orvieto è una città a vocazione musicale.

L’affluenza di questa mattina, che speriamo si replicherà nei prossimi giorni, si deve sia ai numeri della scuola di musica sia alla partecipazione dei bambini della scuola primaria che abbiamo sensibilizzato in maniera cospicua. La scuola di musica svolge la funzione che deve comunque svolgere per missione; probabilmente la spiccata sensibilità musicale in città deriva dall’attività encomiabile dei maestri della scuola musicale che hanno saputo gettare il seme della passione. Auspico che questa esperienza di Umbria Jazz 4 Kids possa ripetersi negli anni successivi in maniera stabile e maggiormente organizzata.

La salutiamo con i complimenti e gli auguri per i primi quarant’anni di attività della Scuola di Musica “Adriano Casasole” di Orvieto!

Si, vi ringrazio di cuore. Sicuramente con UJ4Kids abbiamo fatto un bel regalo alla nostra città!

Bellissima realtà, questa della scuola civica orvietana. Bravi!


Sento però il bisogno di un buon caffè, niente di meglio dell’espresso macchiato di Anthony del Blue Bar: squisito!

Di corsa alla Sala dei Quattrocento: Sullivan Fortner è già pronto al pianoforte.

Conosco questo meraviglioso virtuoso. Giovane, trentaduenne, di New Orleans, Sullivan è già una stella affermata; dopo la vittoria, nel 2016, del “Lincoln Center Award for Emerging Artists” è stato un seguito incredibile di collaborazioni e concerti importanti: nella sua ultima band, il mitico Roy Hargrove lo scelse quale fido pianista.

Nella versione piano solo, Fortner è incontenibile. La tecnica è prodigiosa ma questo può essere scontato quando si naviga a questi livelli. Ciò che mi colpisce nel profondo di lui è la capacità di scolpire momenti intimi e malinconici con una cura del suono da artista classico. In un brano incantato che non conoscevo, in tonalità di mi bemolle minore, chiudo gli occhi e mi pare di ascoltare un Debussy di terza generazione, tanto brillanti e luminosi sono gli acuti in pianissimo che tira fuori dal gran coda Steinway. Le mie parole non possono rendere efficacemente le suggestioni che ho ancora ben impresse nella mente.

Il suo repertorio, classico quasi antico ma rimaneggiato con attualizzata maestria, si identifica in un meraviglioso “They can't take that away from me”, nobile canzone del 1937 di George e Ira Gershwin che Jelly Roll Morton (per me un riferimento interpretativo del primo jazz) non avrebbe potuto eseguire meglio.

Sullivan Fortner, un fenomeno a Umbria Jazz Winter #27.

La sua performance è arricchita da Michela Marino Lerman, virtuosa della tap dance che costruirà, assieme al virtuoso pianista, esecuzioni trascinanti e coordinatissime. Non me ne voglia la splendida signora Lerman ma io non riesco a togliermi dalle orecchie le meraviglie, in solitario, che ho goduto da Sullivan e sulle quali intendo continuare a meditare, tanto da decidere di ritirarmi verso casa.

Suono luminoso, pianissimi che parlano, uso magistrale del pedale di risonanza…

Dopo pranzo decido, sorprendendomi (non era previsto), di tornare a riascoltare Danilo Rea, Massimo Moriconi e Alfredo Golino nella replica dello spettacolo dedicato alle canzoni di Mina che avevo già apprezzato la sera prima al Mancinelli.

In genere, avverto sempre una notevole differenza acustica fra le due location e anche questa volta ciò viene confermato. Certo è che la qualità di questo progetto musicale è altissima; alla Sala dei Quattrocento riesco a sentire ancora meglio la parte del contrabbasso di Moriconi, le cui sonorità erano un po’ sacrificate il giorno precedente.

Anche il pianoforte risulta un differente, più aspro e tagliente; i bassi che Rea generosamente dispensa sono dritti, hanno deboli rotondità di risonanza.

La rilettura delle canzoni oggi mi appare diafana e un poco algida, quasi intellettuale. Il risultato è comunque interessantissimo e di gran pregio.

Aspetto sino alla fine, non è chiaramente un sacrificio, per parlare col Maestro Rea e per confidargli le mie sensazioni acustiche

Ma, vedi, io mi porto sempre dietro il mio monitor audio che mi restituisce un suono a cui sono affezionato. Tu sai meglio di me che ogni volta che cambiamo strumento, cambia tutto. La fortuna per chi suona gli strumenti a fiato è che loro si portano dietro la propria tromba o il proprio sassofono.

Qual è stato il pianoforte che hai suonato del quale ti ricorderai sempre, nel bene o nel male?

Ne ho suonati tanti, di bellissimi. E poi, ogni pianoforte modifica il timbro a seconda dell’ambiente in cui lo suoni. Più che di pianoforti, parlerei di teatri… L’altro giorno ero al Metastasio di Prato, non un teatro enorme come l’Auditorium di Roma ma in grado comunque di darti un suono che, come dici tu, fa sognare, diventa emozione.

Il teatro che hai sentito risuonare meglio?

Di sicuro quello che ti ho appena citato. Poi, in Cina ne trovai uno che era sbalorditivo. Quando arrivai - dovevo eseguire un piano solo per mille persone - chiesi se il pianoforte sarebbe stato amplificato; mi risposero di no. Eppure, mentre lo suonavo, alle prove, avvertivo come se fosse realmente amplificato: mi sentivo dentro ad una cassa di violino, di chitarra, con il suono che prendeva forma e si dirigeva verso il pubblico. Una sensazione incredibile, per me veramente gratificante; era tutto acustico, il teatro risuonava in quella maniera stupefacente.

Danilo, si può parlare di stile Rea nelle tue reinterpretazioni?

Ti ringrazio della domanda. Io direi di si, mi chiedi un giudizio immodesto ma credo di si. Mi sono esposto molto in passato, a riguardo. Ora si tratta di una attitudine sdoganata ma 20-25 anni fa, suonare un pezzo di Bob Dylan in jazz, insomma…

Beh, ricordi il tuo cd sulla musica lirica, no?

Si, come no… Non è che io volessi suonare la lirica, in realtà a quei tempi volevo improvvisare su qualsiasi cosa. Ero partito dallo studio della musica classica, poi arrivò Modugno, i cantautori, poi il pop, la musica degli anni 70. Il mio desiderio era quello di approfondire la libertà dell’improvvisazione e nella libertà dell’improvvisazione c’è anche la possibilità di affrontare qualsiasi repertorio. Il rischio di fare un lavoro di questo tipo è quello di peccare trasformando un brano di Lucio Battisti in uno standard di jazz: a quel punto, il brano diventa più datato di quello che in realtà è, lo snaturi e puoi cadere nel kitsch. Io tento di anteporre la melodia all’improvvisazione e di far sì che la melodia sia sempre presente nell’affrontare un pezzo come un’aria lirica o una canzone di Mina. Ciò mi permette di produrre un’improvvisazione lirica, melodica, con una consequenzialità che ci tiene sempre ancorati al brano originale. Devo riconoscere che questa esperienza l’ho sviluppata nel corso di tanti anni e anche sotto tante critiche; fai conto che quando col Doctor 3 (trio jazz italiano nato nel 1997 e formato dallo stesso Rea al pianoforte con Enzo Pietropaoli al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria, ndr) uscimmo col nostro primo disco, suonammo “Your Song” di Elton John. L’allora direttore di Musica Jazz (rivista italiana del settore, ndr) scrisse che il disco era sostanzialmente brutto, firmando una recensione negativa due mesi prima del referendum di musica jazz; in realtà, poi, quel disco vinse come miglior disco jazz italiano dell’anno. Erano dieci anni che io facevo quelle cose là, ed erano dieci anni che io venivo criticato aspramente per questo, anche dagli stessi colleghi jazzisti. Io facevo semplicemente ciò che mi andava di fare. Spesso si pensa che quello che tutta la gente ama, sia meno bello e dignitoso di altre cose, magari più ricercate. Come quando frequentavo il Conservatorio e, parlando del Notturno di Chopin in mi bemolle maggiore, si diceva “Che pizza”, “Lo suonano tutti” ecc… Se è bello e lo amano tutti, è perché è bello ed è amato per questo.

Un esempio fulgido di bellezza! Un’ultima domanda, magari sciocca. C’è una musica o un autore che, in questo momento, non ti senti di rielaborare?

Ce ne sono tantissimi. Per quanto riguardo gli autori, è chiaro che alcuni sono molto, molto difficili da affrontare. Già nella musica lirica se ti sposti da Puccini verso il passato, il belcanto, Donizetti, Bellini, hai delle difficoltà ad improvvisare perché armonicamente sono più rigorosi e lineari; Puccini è una porta aperta verso il jazz, secondo me. Alban Berg è un autore che io adoro ma che non affronterei mai in quanto la sua complessità architettonica è tale da essere irriproducibile, per un certo punto di vista. Devo esplorare tratti più melodici. Anche Bela Bartok, che mi fa impazzire, è un terreno minato. La grandezza mista alla complessità armonica e tematica mi induce a cercare altro. La libertà vera nasce dalla semplicità, come amava dire Sonny Rollins: il pubblico per capire dove va l’improvvisazione deve ascoltare una melodia che sia chiara e conosciuta, in maniera tale che l’esecutore possa condurre l’attenzione verso l’improvvisazione senza strappi. Questo fa sì che, vedi per esempio l’esperimento di stasera con le canzoni di Mina, quei temi noti suscitino delle emozioni che vengono amplificate poi dall’improvvisatore.

Ultimissima: come conservi la tua tecnica sublime? Fai ancora i classici esercizi o li hai sublimati nella pratica concertistica?

Non faccio esercizi di tecnica; quando studio, semplicemente improvviso. Cerco di studiare improvvisando, per scoprire nuovi fraseggi che poi dovrò metabolizzare per evitare ripetizioni che, alla lunga, diverrebbero clichés. Studio, suonando.

Che bella chiacchierata. Spero che anche voi lettori abbiate provato lo stesso mio piacere nell’ascoltare i pensieri del Maestro Rea.

La mia giornata è proseguita con altri ascolti dei quali avrò piacere di parlarvi, se vorrete, nei prossimi diari.

A voi il buongiorno, a me la buonanotte.


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