cultura

Ciò che inferno non è, l'inno alla vita di Alessandro D’Avenia

lunedì 8 dicembre 2014
di Alessandra Fassari
Ciò che inferno non è, l'inno alla vita di Alessandro D’Avenia

Un inno alla vita, alla bellezza e all’amore, un inno alla straordinarietà dei piccoli gesti che cambiano il mondo, questo è Ciò che inferno non è, l’ultimo romanzo di Alessandro D’Avenia, recentemente edito da Mondadori e già in vetta alle classifiche letterarie.

Insegna lettere in un liceo milanese il Prof palermitano, sceneggiatore e scrittore, già autore di Bianca come il latte, rossa come il sangue, portato sul grande schermo con successo d’incassi, e di Cose che nessuno sa.

Ciò che inferno non è è un testo che non avrebbe voluto scrivere perché «era già scritto nella mia carne –dice l’autore- ma in una città, come Palermo, che si sta disperando pur avendo così tanta bellezza, dove i ragazzini osannano alla vittoria il giorno dell’uccisione di Falcone, ho visto la disperazione come un alibi e ho scelto di scrivere il libro perché questo alibi venga spazzato via.»

Il romanzo, ambientato a Palermo durante gli anni delle stragi di mafia, delle quali furono vittime i giudici Falcone e Borsellino, prende spunto dalla figura di Don Pino Puglisi, l’uomo che, sacrificando se stesso in quel di Brancaccio, ha certamente contribuito ad ispirare la stesura del libro pur non facendone un’agiografia. «Quando parlo del sacrificio di Don Pino –spiega D’Avenia- non mi riferisco a colui che si è lasciato ammazzare, ma mi riferisco all’etimologia della parola sacrificio, il sacrum facere, cioè l’atto di rendere sacra la bellezza che già esiste e don Pino era proprio un acceleratore di bellezza» ... «Palermo è come un quadro di Caravaggio –aggiunge- ritrae gente coi piedi sporchi, ma presenta sempre un fascio di luce che non si sa bene da dove venga.»

E proprio in un quartiere abitato da gente coi piedi sporchi, Padre Pino Puglisi, o 3 P come lo chiamavano i suoi studenti, riusciva a trovare quel fascio di luce che è amore, che è bellezza, che è vita, e lo trovava nei ragazzi del centro Padre Nostro. Sono loro i personaggi chiave del romanzo, Francesco, Riccardo, Totò, Maria, Dario e Lucia, sono bambini che «hanno il ghigno involontario dei randagi», esultano e con follia distruggono tutto perché non hanno altro da fare, loro vivono nell’inferno che è «l’anestesia di non sentire più vivere ciò che è vivo», ma nel frattempo muoiono dentro e si svuotano perché «l’inferno è togliere tutta la vita e tutto l’amore da dentro le cose.» Loro vanno a scuola solo fino alla quinta elementare perché a Brancaccio, si sa, «a scuola ti insegnano le cose come devono essere e non come sono», poi la vera scuola diventa la strada, dove ti spuntano gli artigli come ai lupi e dove quello che vuoi te lo prendi.

E c’è Federico, il protagonista col nome da re, un giovane D’Avenia forse, normanno nei colori anch’egli ed innamorato come l’altro di Petrarca, delle parole àncora, quelle giuste, quelle «da ormeggiare nel porto della testa» per non perderle nel cuore quando vanno alla deriva. Un giovane, come tanti, alla ricerca di qualcosa che dia un senso alla vita adolescenziale, un giovane che di preti e Dio non vuole saperne, ma che, tramite il suo professore di religione, scopre a Brancaccio la vera vita e l’amore con la A maiuscola, un giovane che con lui capisce che è tutta una questione di sottrazioni «Togli l’amore e avrai l’inferno, mi diceva, don Pino. Metti l’amore e avrai ciò che inferno non è.»

Così, ingoiando parole una dopo l’altra, in una lettura vorace che non ti sazia mai, ti ritrovi catapultato in una Palermo, tutta porto fatta da “chilometri di abbracci”, di sfincioni e meraviglie arabo-normanne, attraverso un racconto che non ti aspetti, una storia che ti coinvolge e ti sconvolge a un tempo, che ti prende l’anima e la interroga a bruciapelo, che non ti dà risposte, ma ti pone domande. Un romanzo che è prosa e poesia, che è amore e odio, inferno e paradiso, un testo posto al lettore in modo accattivante, con un linguaggio melodioso e poetico e tutta quella freschezza adolescenziale che l’autore riesce ad utilizzare con una meravigliosa meticolosità e naturalezza.

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