cultura

Orvieto a lezione da Roberto Vecchioni. Musica e parole per risvegliare le coscienze

giovedì 4 settembre 2014
di Davide Pompei
Orvieto a lezione da Roberto Vecchioni. Musica e parole per risvegliare le coscienze

A Orvieto è venuto nel 2006, per presentare al pubblico de "Il Libro Parlante" le sue favole rovesciate. A Orvieto è tornato nel 2012, per un'intensa lectio magistralis in occasione del "Festival Internazionale di Arte e Fede". A Orvieto è arrivato mercoledì 3 settembre, alla Festa dell'Unità nazionale "Scuola e Università. #saperi2.0” in corso al Parco Urbano del Paglia, per declinare il tema "Scuola, cultura, sviluppo. Opportunità per il sistema Paese".

Tre volte, nel giro di otto anni. In tre sul palco, giù dalla cattedra. Al suo fianco, la chitarra di Massimo Germini e le parole dell'antropologo Marco Aime. Uno e trino, giacca e jeans, dietro gli occhiali di insegnante di latino e greco, scrittore e cantautore Roberto Vecchioni viene presentato come "quello che non è mai stato di moda e quindi c'è sempre stato". A metà settembre, sarà in edicola con il Corriere della Sera che proporrà una raccolta di 160 canzoni, da lui realizzate, raggruppate per tema. A fine ottobre, per Einaudi pubblicherà il romanzo "Il mercante di luce", che parla di un padre, un figlio e della malattia, ma anche dell'amore per i libri e per la vita. Un volume di poesie uscirà, poi, il prossimo anno per Bompiani.

"Purtroppo – ha esordito il professore – non vedo in prima fila molti ragazzi. Per questo bisognerà tentare di capire, e in poco tempo, cosa significa educazione scolastica in una società come quella italiana e una civiltà come quella moderna. È un problema spaventoso da risolvere. È drammatico, oltre che scontato dirlo, ma tutto quello che si insegna a scuola non serve. Non insegni valori, coscienza, cultura. Ma a sbattere nel modo meno intelligente possibile quello che hai imparato, quando varchi il confine e vai nella vita.

Se parliamo di scuola, non dobbiamo pensare alla creazione di automi che faranno lavori, di cui non afferrano il senso. Quello che la scuola tenta di – e non riesce a – dare è trovare un modo per sbarcare il lunario, portare i soldi il 27 del mese. O rubarli. Non aiuta a dare un senso alle cose. E se la scuola non dà una giustificazione, non ha nemmeno significato la vita. Ci abituiamo ad essa, così come ci siamo abituati al linguaggio, alla fruizione – distorta – delle canzoni come abitudine passiva. Abbiamo imparato un modo di apprendere le cose che non ha nulla a che vedere con la realtà. Se la osserviamo con occhi limpidi, ci accorgiamo che - come il linguaggio - tutto è tossico, fittizio, inutile, bugiardo, falso, triste.

La credibilità della scuola è stata distrutta da un mondo di interessi commerciali, di messaggi pubblicitari, di logiche immediate. Dobbiamo batterci – io, da insegnante, lo faccio da 45 anni – affinché si abbia il barlume di coscienza che la cultura salva la vita. Qualsiasi cosa si faccia. Occorre dare un senso alle cose. Un punto di vista. Per quanto mi riguarda, sono di sinistra non perché abbia sempre amato il partito bistrattato e le sue trasformazioni, ma per la concezione che ho dei valori. Su questo ho vissuto, e ci morirò. Abbiamo il dovere di sognare”.

La prima canzone che interpreta, da seduto, è anche l'ultima che ha composto prima di andare in pensione e che ha dedicato ai suoi studenti. "Sogna ragazzo sogna" dice loro, con il fiato che oscilla tra l'urlo e il sussurro, in una versione quasi parlata di quello che viene considerato non a sproposito un manifesto.

"I modi sociali di vedere – riprende poi – ma anche certi credi religiosi hanno finito per distorcere la realtà. Non dimentichiamo l'essenzialità dei gesti e delle parole. Quante ne stanno scomparendo dal nostro quotidiano! Oggi il vocabolario dei giovani conta appena 3000 voci. E la mancanza di gradazioni di parole equivale alla mancanza di gradazione di concetti, all'anestesia del pensiero di utilizzare l'aggettivo giusto. Che sparisce, sostituito da una faccina triste. Non basta un punto esclamativo in più o una faccina per far capire come stai dentro. Serve la parola. Non abbiamo propagandato abbastanza la cultura dell'altro, in nome di stereotipi e giudizi fatti. Dobbiamo smettere di avere paura, dobbiamo sentire".

È così che introduce "Le lettere d'amore", ispirata a "Todas as cartas de amor são ridículas" di Álvaro de Campos, alter ego di Fernando Pessoa che ha scritto in diversi stili sotto diversi nomi, in maniera disperata fino alla fine per capire, alla fine, una cosa essenziale. Che un senso che fa andare avanti c'è, anche dentro il nonsense. E si chiama amore. Pessoa e "la sua pioggia obliqua di Lisbona" come emblema del '900, che ha segnato la nascita del dubbio anche esistenziale e della rivoluzione di arte e scienza, piegate alla soggettività e all'insicurezza. Come atto d'amore per le parole. "Perché scrivere – spiega Vecchioni – significa essere uomini, battere i tasti essere un robot. Sarà per questo che da nativo analogico e non digitale, scrivo ancora a penna".

E vira sulla politica. "Erano due anni – dirà poi, quasi a scusarsi – che non avevo simili sfoghi. Ma l'Italia è un paese che si lamenta sempre, che non si accontenta mai, che è stanca ma distrugge e non si piega a un sacrificio collettivo, ragionando per tribù isolate". Il confronto generazionale, invece, ritorna con voce di padre in "Figlia" e in "Celia De La Cerna", in cui recupera la dimensione umana di "un rivoluzionario di nome Ernesto e delle lettere con la mamma" e rievoca "Tre madri" di De Andrè, "una delle canzoni che amo di più". Alle 23 i brividi non li dà il freddo di un settembre feroce, ma "Le rose blu". "Per scriverla – racconta – sono stato tre giorni chiuso in una stanza. E ne è nato un omaggio a Dio ma soprattuto all'amore che ho per mio figlio che ha conosciuto la Sla". Si alza, fa per andar via. Ma è con l'immancabile "Luci a San Siro" che si congeda.

 

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