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Lungi dal tufo ove l'invidia scotta...

martedì 26 ottobre 2010

di Carlo Mazzoni

Viaggiare  è vivere.
E' capirsi. E' comprendere gli altri e sè stessi.
E' creare qualcosa di tuo.
A  questo pensavo qualche giorno fa, osservando in libreria due testi,diversi tra loro, di scrittori e giornalisti di epoche e stili differenti, ma che stranamente mi hanno fatto riflettere sul rapporto tra arte, vita e ...terra natìa.
I due libri in questione sono quello dedicato ai "Barzini"  (di Ludina Barzini) e quello su Tiziano Terzani , con i suoi reportage, le sue foto, le sue esplorazioni esterne e interne.
Grandi giornalisti, grandi scrittori, ma soprattutto grandi viaggiatori.
Barzini senior, l'inviato speciale per antonomasia, e Terzani, testimone dei grandi eventi, nonchè quasi guru del saper vivere e della saggezza interiore.

Entrambi collegati in un certo qual modo  alla nostra città.
Barzini proprio a Orvieto nacque , nella seconda metà dell'ottocento, per poi emigrare a Milano, dove è potuto diventare, lui e successivamente figlio e nipoti, una prestigiosissima firma del giornalismo internazionale.
A lui, come si sa, la nostra città dedica l'omonimo premio all'inviato speciale, nella cornice del Palazzo del Popolo.
E tra i tanti premiati, nel corso degli anni, ci fu appunto anche Terzani che a mio modo di vedere fu il più coinvolgente, soprattutto quando, qualche anno dopo, tornò a presentare "Lettere contro la guerra", nel post 11 settembre, e, in una Sala dei Quattrocento gremitissima, conquistò la città.

Perché dico tutto ciò?
Perchè  a me sembra che ad Orvieto, perlopiù, si parli di cultura o per ricordare illustri concittadini diventati famosi lontano da qui, o quando un grande personaggio viene ad onorare la città con la sua presenza.
E questo è giustissimo, ma non basta, perchè è riduttivo, e tipico della mentalità della piccola provincia.
A Orvieto ci sono giovani  e meno giovani che hanno nei confronti dell'arte una passione e un rispetto considerevoli, e molti di loro sanno farsi onore nel campo della musica, del teatro, della letteratura, del cinema, spesso ottenendo anche riconoscimenti al di fuori della città, più che nella nostra piccola comunità.
E questo non tanto perchè "nemo profeta in patria", quanto perchè da un lato chi prova a fare qualcosa di diverso o nuovo spesso viene visto come esaltato, presuntuoso e quindi guardato con sufficienza, dall'altro lato perchè chi poi "ce la fa", divenuto famoso, magari per malcelata vendetta, considera con superiorità i suoi concittadini, il cui giudizio reputa insignificante (della serie "ma che vuoi che ne capiscano gli orvietani").

Ebbene, entrambi sono tragici errori. E sapete perchè?
Perchè in realtà l'arte non appartiene né alla piccola, né alla grande città e neanche al tuo paese, ma solamente all'artista e al mondo che la recepisce.
Forse che Picasso appartiene alla Spagna, Baudelaire alla Francia o Tolstoj alla Russia?
Certo che no.
Ecco perchè ho sempre pensato che ci vorrebbe da parte dell' artista la piena consapevolezza di ciò che ha creato, unita alla capacità di interazione con chi sa e vuole recepirla, senza essere nei confronti della propria comunità né dipendente, né supponente.
Anche perché, diciamocelo chiaro, l'artista è, per sua stessa essenza, solo nel momento in cui crea, e aperto al mondo intero quando la sua opera, piccola o grande, bella o brutta, vede la luce.
L'arte rispecchia l'artista, e non viceversa, e l'artista riflette nella sua opera il suo essere, le sue emozioni e, inevitabilmente  anche il luogo in cui è cresciuto.

Ed è riflettendo su ciò che mi è venuto in mente proprio l'ultimo Terzani, condannato dal cancro, che dopo un lungo periodo in un eremo sull'Himalaya, se ne è andato a trascorrere i suo ultimi giorni nella sua Orsigna, nel cuore della sua Toscana, nei posti in cui andava da bambino.
Sì, proprio lui che aveva sempre vissuto lontano.
E mi ricordo di aver letto che fuori del cancello della sua casa aveva fatto mettere un cartello con su scritto "OGNI VISITA E' SGRADITA. SENZA ECCEZIONI".
Potrebbe sembrare l'atteggiamento di un misantropo, di uno chiuso in se stesso, di un asociale.
Proprio il contrario.
Si trattava di un uomo che aveva scritto e viaggiato per una vita... aveva creato per conoscere e conosciuto per creare... aveva voluto ascoltare e capire per ascoltarsi e capirsi.
Aveva vissuto il mondo, ma era voluto venire a morire nel suo paese.
Ma non voleva visite e celebrazioni, voleva solo respirare l'odore della sua Orsigna.
Voleva sentire la propria terra vibrare.
Perchè non è obbligatorio che l'artista onori la propria città,  ma dovrebbe essere la città a sapersi nutrire dell'arte dei suoi figli.


di Gianluca Foresi

Sul monolite fisso de la rupe
Da patarina a le diserte piagge,
Vagava l'alma mia con idee cupe,

In cerca di figure che fuor sagge
E l'urbe riempirono d'ingegno
Per darne canoscenza e render magge

Le virtute che in nuce come pegno
Han dimorato su tufacea petra.
Di quei vetusti i' cercava segno:

E come quei che vòlto non arretra
A petto di nimico, eppur paventa,
Trassi di mente, come da faretra,

Agute frecce di genìa non spenta
E dissi: "Con voi nobili menti
Ai giorni nostri chi vi s'apparenta,

Chi può rigenerar sì altrimenti
L'alta cultura che n'appare prona?"
Mentre nasceva tra li turbamenti

L'aspra question ch'ancora mi ragiona
Come d'incanto dallo nihil venuta
M'apparve larga in forma di corona

L'imago d'una schiera non sparuta
Che qua e là movendo mulinava
Facendo spire con la forza bruta

Da sollevar la rena della cava,
Così agli occhi miei ratta s'affise
La polvere, che a stento dilavava;

Cieco novello Omero a quell'assise
I' chiesi d'esplicar loro sembiante.
Quali per l'aere dritte van decise

Falene al foco pur ch'ene distante
Dimentiche del fato che l'attende
Così da la corona un trio raggiante

Mosse ver me, et alle sue vicende
Principio dette un volto femminile:
"I' son colei che fu dietro le tende

Con altro trio, ma il resto da virile
Giocava certa comica virtù,
Di cui ognun rammemora lo stile
Et molto dette a italica tivù!
Nobile fui, de' piccioli Marchesi
E lo casato mio annovera virtù

Di vergar versi, tenui sirventèsi
Pè' ricordar la lingua urbevetana
Di cui alcun disprezza l'esegèsi.

Con tal idioma gente mi sdogana
Chè dentro l'occhio dimorava tarlo
Di me vestita come una befana

E per i più son signorina Carlo!"
Mentr'ella dunque terminava allotta
Volse di lato lo mirabil guardo

A l'altri che quella medesma rotta
Ebber seguito per cercar fortune
Lungi dal tufo ove l'invidia scotta.

Come colui tirato da una fune
M'avvicinai a quella coppia trista
E dissi: "A chè lasciaste lo comune,

Quale destino fé mancar la vista
Di voi infra codeste brulle lande?"
Ed uno ratto a me: "Son giornalista,

E 'l maggior mio con maglio così grande,
Battè sovra l'incudine pel ferro,
E la su fama ben alta s'espande!

E io: "In picciolo libercolo, non erro,
Ne divisai cotal presentazione,
L'intiero tutto ratto or afferro

Marcello fu a dar generazione
A te che con dolore tanto arcigno
Lassasti qui, per gir a La Nazione,

Et a Perosia poscia che Foligno,
Dimori or, ma con doglianza miri
A questa rupe ch'ene come scrigno

Da dove voi, qual pulcheri zaffiri
Sortiste a far ritorno solamente
Fra languidi lamenti con sospsiri.

E lui a me: "Tu bene tieni a mente,
Lo qual in veritate qui m'avvenne,
Ma in Urbe altri e sommamente
Sotto le'ali del poter perenne
Fè ragionare ancora non canuto
L'alto pensier che move d'Avicenne,

E Averroè, portando il contributo,
Per Aristotile e per la sua dottrina;
A me accanto tace lo Bue muto

Per lui favella alta virtù divina
Racchiusa in summa su' teologeae
Che sotto forse insegna papalina

Sortì dallo intelletto delle froge
Quando in orvieto sub Urbano quarto
Ei discettava l'arte d'isagoge."

Tanto rapito da quel dotto parto
Fui, che fuggì altrove la mì possa
Tanto da non riuscir a mover arto

E ad occhi spalancati simil fossa
Guatava quel terzetto che sen giva,
Ma era la mia la mente tutta mossa

Da pensiero il qual mi suggeriva
Degli intelletti stati, eppure stanno
Di tanta gente andata però viva

Di cui ci si rammenta con affanno
Sebben magnificaro e reser terso
Ponendolo a la vetta dogne scranno

Lo nome d'Urbeveto, e per converso
Ci s'arrovella ad ogne piè sospinto,
Facendo quei lo centro d'universo

D'altri cotali, giunti da Giacinto,
D'altre dimore, purchè forastieri
Rendendoli fratelli nel recinto.