sociale

L'intrecciarsi dei secoli nel legno dei portoni, l'intimo dialogo di Nazzareno Carloia

sabato 29 novembre 2014
di Livia Di Schino
L'intrecciarsi dei secoli nel legno dei portoni, l'intimo dialogo di Nazzareno Carloia

Molti dei portoni del paese parlano di lui e loro raccontano la storia di un centro storico e dei tempi che furono. Varcando la Porta Nord, Monteleone d’Orvieto si sviluppa per lunghezza in un susseguirsi di abitazioni sino al Torrione e alla sua ampia vallata. Il Belvedere. Un susseguirsi di ingressi, porte e portoni che nel loro essere e divenire custodiscono i cambiamenti delle famiglie che, nell’intrecciarsi dei secoli, hanno scritto la storia del borgo. Una storia che Nazzareno Carloia, falegname oggi in pensione, ha contribuito a conservare e a narrare a chi, ammirando la sua arte scaturire dalle ruvide mani, ha saputo arricchirsi delle sue parole, dei suoi gesti, della sua conoscenza.

Un intimo dialogo con il legno che, da quando era giovanissimo, Nazzareno ha cominciato a fare proprio, anche grazie a una tradizione che si è trasmessa di generazione in generazione. Un dialogo intergenerazione che al momento appare riposare all’ombra del silenzio, dove gli strumenti di lavoro di Nazzareno sonnecchiano troppo puliti e ordinati. Inutilizzati nella sua bottega, ma ancora custoditi gelosamente da chi sa quanto possano essere preziosi.

Un dialogo intergenerazionale, un’opportunità personale e per la collettività, che affonda le proprie radici nella riscoperta: da una parte, nel valore dell’ascolto e nell’umiltà dell’imparare dalla saggezza popolare e, dall’altra, nella generosità dell’insegnamento e nella pazienza del saper trasmettere in modo gratuito ciò che si è imparato in una vita di sacrifici e fatica, ma anche di grandi soddisfazioni. Soddisfazioni che, ancora possibili nei piccoli borghi, trovano radici nel riconoscimento sociale per l’attività svolta e per le competenze messe a disposizione della comunità. Icone conservate nella memoria storica collettiva.

Come ricordano alcuni compaesani, infatti, era affascinante vedere lavorare Nazzareno, nella via principale del paese o per i vicoli traversi, con il suo camice scuro e circondato dagli attrezzi del mestiere. Nessuna distrazione per chi, come lui, stava portando avanti un intenso e intimo colloquio con il legno: un giusto compromesso tra l’affettuosa carezza, la necessaria levigata e il deciso colpo. Come in una danza di creazione, ogni passo al momento giusto: tutto per il bene del portone e per la sua conservazione.

Nel raccontare porte e portoni, Nazzareno si soffermava sulle probabili esigenze che avevano indotto ai cambiamenti, incisi e visibili nel legno, che si erano dipanati nei secoli. Da alcune porte interne agli abitati e molto grandi, che permettevano il passaggio anche degli animali, a quelle più signorili a due ante; dalla storia del rifacimento di portoni perché dovevano giungere nuove sposine al paese dalla città a ingressi in profonde cantine rattoppate con sportelloni diversi perché, nell’economicità, l’unica funzione che avevano era quella di custodire alimenti nascosti in tempi di guerra o di carestia. Tra le curiosità, in alcune case c’era e, a volte rimangono in uso, delle minuscole porte con tanto di sportellini in legno per chiuderle. Ingressi riservati ai gatti, le cosiddette “gattaiole”.

E infine l’incresciosa questione della vernice. Insopportabile vernice. Pitture che per moda o per diletto erano state compiute. Claustrofobici bavagli per la storia e per la respirazione del legno, più o meno pregiato. Inevitabile il lavoro per far ritornare il portale al suo originario splendore.