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Piccolo non è bello. Dalla pagine di Micropolis, l'intervento di Renato Covino

mercoledì 26 febbraio 2014
Piccolo non è bello. Dalla pagine di Micropolis, l'intervento di Renato Covino

Di seguito l'articolo pubblicato sulla rivista Micropolis di gennaio 2014 a firma di Renato Covino, docente di Storia Contemporanea presso l'Università degli Studi di Perugia.

Il mantra delle riforme istituzionali
Abbiamo più volte scritto che la questione della riforma istituzionale non è legata allo scioglimento delle province o all'accorpamento degli enti intermedi (comunità montane, ambiti territoriali ottimali, unità sanitarie locali, ecc.) nella convinzione che in tal modo si snellisca la macchina burocratica e si abbattano i costi della politica, quanto ad una, absit iniuria verbis, riforma istituzionale che ridisegni l'insieme dei livelli decisionali dello Stato. Nel dibattito politico corrente, invece, si è imposta l'idea che sia sufficiente accentrare, diminuire o eliminare le rappresentanze, privatizzare i servizi, il tutto, peraltro, senza una discussione diffusa che coinvolga le comunità interessate, ma nel chiuso del parlamento e dei consigli regionali. I risultati sono perlomeno discutibili come emerge in Umbria dalle vicende della Azienda forestale regionale o dell'azienda unica di trasporto.
In realtà, a prescindere da quanto avviene in queste sedi e da quanto ci si propone di fare, soprattutto in parlamento, esisterebbe un ampio terreno di iniziativa interna alle regioni che potrebbe coniugare iniziativa istituzionale e protagonismo delle comunità e ciò si potrebbe applicare soprattutto ad una questione centrale che è quella del ridisegno, urgente in Umbria, della mappa dei comuni.

Una questione europea
In uno studio di una quindicina di anni fa realizzato dal Cantone Ticino la questione dei piccoli comuni veniva inquadrata nel contesto europeo. Si rilevava come comuni con più di 5.000 abitanti fossero in grado, più di quelli di taglia inferiore, di erogare in modo efficace servizi (in Italia la dimensione ideale era stimata in circa 20.000 abitanti). Inoltre, a parte l'efficienza e la capacità di sfruttare economie di scala, emergeva come in questo quadro il comune divenisse forza capace di contrapporsi al potere centrale e di rappresentare una cellula attiva del sistema democratico nazionale. Ciò ha comportato in tutta Europa, tra il 1950 ed il 1992, una drastica riduzione del numero dei comuni. In Svezia sono diminuiti dell'87%, in Danimarca dell'80%, nel Regno Unito del 76%, in Germania del 67% in Belgio del 42%, ecc. In Italia, nello stesso periodo, i comuni sono aumentati di 319 unità. La cosa si è ulteriormente complicata nell'ultimo ventennio con il testo unico degli enti locali che ha trasformato i comuni in enti di programmazione, cosa che stante la situazione si configura come un'evidente finzione.

In Umbria
Venendo all'Umbria se si analizzano le circoscrizioni comunali per popolazione si scopre che solo 33 hanno più di 5.000 abitanti, per contro 35 ne hanno meno di 2.000, addirittura di questi dieci contano meno di 1.000 residenti. Cosa possano programmare comuni di poche centinaia di persone, che non riescono a garantire neppure i servizi essenziali (ricordiamo il caso di Sant'Anatolia di Narco, di qualche anno fa, che non era in grado di assicurare ai suoi cittadini nulla e il cui stesso sindaco chiedeva lo scioglimento e l'accorpamento dell'ente), è un mistero.
Si sostiene che lo scioglimento dei piccoli comuni diminuirebbe in Umbria il costo della politica solo di qualche centinaio di migliaia di euro ed è vero, ma il punto non è questo. Come si è già detto la prima questione è di democrazia, ossia un piccolo comune non è in grado di assicurare livelli decenti di partecipazione dei cittadini alle scelte; la seconda è di efficacia e di efficienza: un piccolo comune non permette di organizzare in modo soddisfacente i servizi; il terzo è di risorse: un piccolo comune non ha risorse sufficienti di personale e di finanziamenti per assicurare almeno il funzionamento ordinario; il quarto è che i comuni minuscoli non hanno nessuna capacità di influenza nelle politiche regionali e di resistenza alla prepotenza dei comuni maggiori.

Gli ostacoli da superare sono tre. I sindaci prendono poco, ma qualcosa prendono, e soprattutto esercitano un ruolo ed hanno visibilità; i funzionari acquisiscono posizioni che verrebbero perdute se si accorpassero le funzioni; infine c'è un meccanismo ideologico per cui la dignità di comune attribuita a piccole unità amministrative dà rango e ruolo alla comunità, ne impedisce l'anonimato, esalta criteri di identità e di riconoscibilità municipaliste.

Il problema è, allora, come avviare una transizione regolata e un dibattito ordinato e, soprattutto, partecipato.

Esempi virtuosi
In controtendenza, quindi, appaiono le rare proposte di accorpamento dei piccoli comuni.
La prima esperienza di tale genere è stata quella di tre comuni dell'anconetano, Castel Colonna, Monterado e Ripe, la cui fusione è avvenuta nel 2013.
La seconda è la proposta in Umbria di accorpare cinque piccoli comuni dell'orvietano
(Fabro, Ficulle, Montegabbione, Monteleone di Orvieto, Parrano), peraltro sostenuta dalla Regione.
Ne verrebbe fuori un'unità amministrativa di oltre settemila abitanti ed i vantaggi sarebbero evidenti. Il nuovo comune uscirebbe dal patto di stabilità per tre anni e otterrebbe sui fondi strutturali 5/6 milioni di euro nel prossimo decennio.
La procedura non è semplicissima. In primo luogo occorre un pronunciamento dei consigli
comunali, in secondo luogo è necessario un processo partecipativo che coinvolga le popolazioni, infine serve un referendum che si dovrebbe tenere a maggio e che dovrebbe sostituire le elezioni comunali di primavera.
Le formule sono già state studiate, sono presenti nella legislazione e consentono di tutelare il ruolo delle comunità, con l'istituzione di municipi nelle comunità di origine. Peraltro anche in Umbria esiste una esperienza amministrativa lunga almeno centocinquanta anni a cui poter attingere.
Solo per fare un esempio quando nel 1861venne costituito, grazie alla fusione di piccoli
centri, il comune di Marsciano si decise che il consiglio comunale venisse eletto sulla base di collegi che coincidevano con le unità frazionali e i consiglieri comunali fossero espressi in rapporto alla popolazione dei singoli centri. Nulla impedisce che si adottino accorgimenti analoghi.
La discussione insomma può cominciare da subito, sapendo che l'opposizione verrà dalle
rappresentanze e che quindi o si costruiscono movimenti di cittadini e un'opinione pubblica organizzata favorevole o la situazione è destinata a rimanere come è.

E del resto alcune resistenze già emergono dal dibattito. Da una parte chi ha una visibilità recente (è il caso del rappresentante di "Alternativa per Fabro") cerca di mantenere il quadro inalterato nella convinzione di poter giocare al suo interno un ruolo. Dall'altra si guarda al processo che si va ad innescare come ad un escamotage per evitare in primavera il confronto elettorale da parte di amministrazioni invise alla comunità ovvero ad un "rinnovamento" a geometrie inalterate. Insomma si tratta di spiegare con pazienza alle popolazioni che non è sempre vero che piccolo è bello e renderle protagoniste del dibattito. Per contro se il processo in corso avrà successo rappresenterà un precedente significativo su cui poter innescare altri processi di fusione e di accorpamento. Certo: una rondine non fa primavera, ma - come diceva un vecchio saggio - di fronte a progetti fantasmagorici che prevedono palingenesi radicali, forse è "meglio meno, ma meglio".