sociale

Massacri di guerra per cronisti fragili

giovedì 24 agosto 2006
di Giuseppe Bonavolontà
da www.articolo21.it La parola più usata dalla cronaca nei giorni della guerra è stata: Massacro. Quella più adatta in questi di cessate il fuoco è: Fragile. I massacri fatti dalle bombe, la fragilità dei compromessi di pace in cui governanti e combattenti di tutte le parti cantano vittoria; mentre le loro genti, su entrambe le sponde, perdono. Si dovrebbe essere più clementi con i cronisti impegnati quotidianamente a modificare l’elenco dei morti. A volte sbagliano i conti. Il cronista è particolarmente segnato dalla strage di Cana, avvenuta il 30 luglio scorso. Pensa a quei corpi mutilati e schiacciati, alle espressioni di quei visi presi alla vita nel sonno. Pensa alle braccia che penzolavano mentre li portavano via dalle macerie. Sono immagini che gli fanno vibrare il cervello, sono la realtà che vede con gli occhi. Il cronista sa che non può trasmettere questa realtà in tv. E’ troppo macabra per gli utenti occidentali. Nell’Oriente più o meno Medio, sono convinti che il limite posto nella diffusione delle immagini sia una censura, che non si mostra perché si vuole nascondere. Le tv arabe, invece, più le immagini sono forti, più le trasmettono sugli schermi, come tormentoni che torturano le coscienze, le fanno risvegliare, scatenano i rancori. Il cronista non sa e non deve esprimere giudizi. Dice solo che, alla fine, quello che da una parte si nasconde, dall’altra si ostenta; e il satellite che oramai nelle case porta tutti i canali del pianeta, non pone limiti agli esperti del telecomando, che sono soprattutto i bambini. Eppure la televisione, per quanto si sforzi, è sempre lontana dalla realtà. Quello che si è mostrato di Cana è niente a fronte di quello che ha visto il cronista, per ore e giorni, con i propri occhi, quando si è sbagliato a contare i cadaveri sepolti da tonnellate di macerie spostate a mano. Le ruspe non potevano muoversi nei giorni della guerra. Erano un bersaglio, con i loro bracci idraulici protesi verso l’alto potevano essere scambiate per rampe di lancio di missili Hezbollah. E’ paradossale, ma è vero. Ricordate l’immagine di quei due camion attrezzati per trivellare il terreno? Erano in un parcheggio di Ashrafie, quartiere cristiano di Beirut. Due proiettili li hanno ridotti in rottami. E i furgonati che portavano vegetali dalla valle della Bekaa? Colpiti e distrutti. Il cronista non ci credeva finchè non è andato a vedere: nei cassoni c’era ancora la verdura, incenerita. Ma che differenza fa se i morti invece di sessanta sono ventotto, di cui diciotto bambini. Il più piccolo aveva nove mesi. E’ stato comunque un “massacro” della guerra. I corpi, senza il conforto dei parenti fuggiti lontano, tra un raid e l’altro sono stati gettati in una fossa comune. Ai funerali, celebrati quindici giorni dopo, all’inizio della tregua “fragile”, le donne portavano le fotografie dei piccoli scomparsi. Le mostravano alle telecamere e domandavano se, quelle facce che sapevano ancora di bambolotti, potevano essere scambiate per combattenti. Sventolavano le foto di Iahia Shalhub, età nove anni, di Kassem Samir Shalhub, 8 anni, di Ali Mohammed Shalhub, 10 anni, di Abbas Shalhub, nove mesi. Si rivolgevano al cronista. Il cronista non ha saputo rispondere. Ora il cronista vuole scrivere di Cana per gli amici riuniti a Perugia nel Tavolo della Pace. Cana è benedetta dal Signore e maledetta dagli uomini. Sul piazzale, creato dalla bomba che ha frantumato una palazzina di due piani con innocenti dentro, hanno fatto il nuovo cimitero. Ventotto fosse disposte su quattro file. Da lì si vede la grotta in cui la tradizione individua il luogo del primo miracolo di Gesù: la trasformazione dell’acqua in vino. Il vino, secondo i profeti dell’Antico Testamento, rappresenta la pienezza della verità (“In vino veritas”). Fino a cinquanta anni fa, per quasi duemila anni Cana fu una città a stragrande maggioranza cristiana. Poi molti cristiani migrarono nelle fughe dalla povertà rurale che hanno mischiato l’umanità nel Libano. Contemporaneamente, a partire dal 1967, popolazioni sciite dell’estremo sud a caccia di sicurezza iniziarono a lasciare i loro villaggi occupati dagli israeliani e colpiti dalle guerre. La vicina città di Cana, consacrata dal Figlio di Dio (o dal Profetà Gesù, a seconda delle visuali di fede), fu considerata tra i luoghi sicuri. Così la maggior parte degli abitanti ora sono musulmani. Accanto alle chiese hanno costruito moschee, accanto ai conventi sono sorte scuole coraniche. Genti dal credo diverso convivono rispettandosi, senza sprofondare nei fondamentalismi. Dal nuovo cimitero di Cana si vede un mausoleo. Sulla pietra sono scolpiti centosei nomi di morti. Il cronista, dieci anni fa, ebbe il privilegio professionale e l’amaro nella bocca, di raccontare un altro “massacro” di un’altra guerra che ha reso “fragile” Cana: un centinaio di profughi scappati dal solito sud, campo di battaglia tra miliziani Hezbollah e soldati israeliani, trovarono rifugio nel compound delle Nazioni Unite. Un luogo sicuro, dove c’erano i caschi blu delle isole Fiji. Nessun aereo avrebbe osato sganciare ordigni su di loro. Questo pensavano, quando una di quelle bombe che chiamano intelligenti si dimostrò folle e li sbriciolò. In un attimo strappò la vita a centosei corpi vestiti di stracci. Il cronista non sta con nessuna parte. Sta dalla parte in cui lo hanno mandato per raccontare. Avrebbe considerato un privilegio professionale e un pugno per il suo stomaco, testimoniare i “massacri” compiuti dai razzi Hezbollah nella Galilea israeliana e la sofferenza che rende “fragile” la gente che se li sente piovere addosso. Ma non sa come spedire un occhio da una parte e il secondo dall’altra. Il cronista ha le sue opinioni: prova fastidio per tutti quelli che fanno la guerra, simpatizza con coloro che la subiscono e basta. I primi sono pochi. I secondi sono moltitudini, che si incontrano su tutti i confini.

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