sociale

Dodici ragazzi

lunedì 14 agosto 2006
di Sergio Bassoli
Per gentile concessione di www.articolo21.info Sabato dodici agosto, oggi, era prevista la festa di chiusura del campo, invitando i ragazzi con i ragazzi dei vari centri alla Torre del Fenicottero, unico spazio all’aperto ed attrezzato per i bambini arabi dentro la città vecchia. I nostri ragazzi avevano pensato di organizzare delle squadre per costruire dei disegni sui cartoncini, con i colori liquidi, prevedendo un gran pasticcio di colori, una allegra confusione dove i bambini potessero scaricare la tensione e la compressione che spesso sfocia in aggressività. Nelle serate precedenti, nei dopo cena, si era discusso del cosa fare ed io ascoltavo, in silenzio, questi dodici ragazzi che presentavano e difendevano le loro proposte come se fosse una questione di stato, come se fosse una cosa da prendere sul serio. L’avevano presa veramente sul serio. Il punto centrale del ragionamento era caduto sui bisogni dei bambini, ciò che avevano visto in questi pochi ma intensi giorni di lavoro con loro. Avevano visto con i loro occhi e toccato con le loro mani gli effetti della segregazione di una comunità, quella palestinese, che vive dentro Gerusalemme. Una comunità che vive sotto occupazione e senza prospettive di futuro, circondata da un’altra comunità che ha deciso di non volere più condividere quello spazio e quella terra, ma di volersene appropriare per intero. L’arabo deve andarsene, questo sembra essere il pensiero e la pratica della comunità ebraica. Ed il palestinese di Gerusalemme resiste, soffre, si ripiega in mille strategie di sopravvivenza, non può costruire o ampliare la propria abitazione e quindi vive in spazi angusti, tutti in una stanza, tutti nella cantina, tutti sulla terrazza, tutti nel locale costruito abusivamente fino a quando non arriva l’ordine di demolizione per poi costruirne un altro nel piccolo cortile del retro. Non può più muoversi e spostarsi a Ramallah o nei tanti villaggi che circondano la città vecchia, per andare al lavoro o per raccogliere i frutti ella propria terra, e quindi si inventa nuovi lavori, precari e informali, manda i propri figli ad ovest a lavorare in nero, dall’altra parte, sfruttati ma almeno si porta a casa un pezzo di pane. Alcoolismo e droga sono entrati nelle case della comunità palestinese di Gerusalemme, l’abbandono scolastico è aumentato enormemente, perché andare a scuola, a cosa serve se non sappiamo cosa farcene del nostro futuro, meglio stare in strada, vivere la giornata. I genitori non hanno risposte da dare ai loro figli, vorrebbero darne ma non possono. Le reti di solidarietà si allentano, emergono forti smagliature, violenza tra le mura domestiche e violenza nelle strade, mancanza di punti di riferimento sociali, culturali. I più ricchi, sì perché anche tra i palestinesi ci sono i ricchi, mandano i figli a studiare all’estero, prendono la doppia residenza, vivono due vite, una di resistenza ed una di provvisoria libertà, ma i più poveri rimangono, non hanno alternative, per loro la dignità ed i diritti umani o si trovano qui o non si trovano più. I nostri ragazzi hanno visto, negli occhi e nei comportamenti dei bambini del quartiere arabo di Gerusalemme vecchia, tutto ciò. Nessuno ha fatto loro una lezione in un’aula, loro hanno visto ed hanno capito il problema: combattere la violenza, ridurre la tensione, promuovere la gioia e la voglia di stare insieme. La loro risposta è stata quella di sporcarsi tutti quanti insieme con i colori, succeda quel che succeda, meglio una rissa di colori, liberatoria e piena di vita che tante inutili raccomandazioni in cambio di nulla. Oggi questo poteva bastare, per il nostro campo estivo e per il nostro progetto di cooperazione con i centri giovanili e con le associazioni di Gerusalemme, questo era un ulteriore contributo di assistenza e di rete di servizi sociali che si vuole mantenere in piedi, in assenza di riferimenti istituzionali, ma per il resto, per la pace, per la convivenza, per la fine di un conflitto assurdo che sta distruggendo intere generazioni, persone, famiglie, comunità, è sufficiente? No. Siamo andati a parlare con gli altri, noi sempre parliamo con tutti, noi non siamo contro nessuno, noi sappiamo che per fare la pace occorre costruire il dialogo ed il rispetto dell’altro, noi cerchiamo di praticare quei princìpi che sono facili da declinare negli scritti ma complicati da tradurre in quotidianità, in gesti, in impegni condivisi. Noi abbiamo dimenticato, volutamente, a casa, in una qualche parte della nostra soffitta, l’odio verso l’altro. Riconosciamo che l’altro ha sempre delle ragioni, non può essere sempre e solo un nemico da combattere, altrimenti finisce il gioco della vita.

Questa notizia è correlata a:

L'Arci ricorda Angelo Frammartino, il giovane volontario della pace ucciso a Gerusalemme