opinioni

La fine dell'infinito

venerdì 18 gennaio 2019
di Fausto Cerulli
La fine dell'infinito

A duecento anni dalla stesura della poesia "L’infinito" da parte di Giacomo Leopardi si sprecano le lodi, specialmente sul Venerdì Santo che accompagna Repubblica. Ponendomi fuori dal coro, vorrei
rivolgere qualche modesta critica alla poesia italiana per eccellenza. Andiamo con ordine. L’avverbio "sempre" riferito al passato (mi fu) costituisce un inedito strafalcione, in quanto il sempre va riferito al sempre e dunque non al passato, né al futuro e tanto meno al presente: il sempre è per sempre, come il tempo per Agostino di Ippona.

L'aggettivo "ermo" costituisce un ibrido tentativo di mettere insieme eremo ed erta, con il risultato di far pensare ad un convento posto in salita. E ora tocca alla siepe: se veramente quella siepe impedisse a Giacomo di vedere l’orizzonte, non si capisce come faccia Giacomo ad indovinare cosa ci sia oltre quella siepe. Per tacere che se quella siepe gli dava tanto fastidio, avrebbe potuto rivolgersi al padre Monaldo per far sfoltire dai servi la siepe.

Discutibile poi il silenzio infinito che ha comunque voce. Tanto è vero che Giacomo insiste sulle qualità sonore del silenzio. Quanto alla dolcezza del naufragar nel mare, quello che è troppo è troppo: si tratta di uno schiaffo anticipato nel tempo a quanti affogano nel Mare Nostrum.