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Processo a Pasolini

lunedì 27 marzo 2017
di Fausto Cerulli
Processo a Pasolini

Quella volta non ero in veste di avvocato, né di imputato, ma solo di spettatore. Ero semplicemente uno studente di Giurisprudenza che faceva pratica. Non so quale mio Maestro mi chiese di andare a portare certe carte in Cassazione, che aveva la sua sede al Palazzaccio. A quel tempo il Palazzaccio ospitava tutti gli Uffici Giudiziari, dalla Pretura al Tribunale alla Corte d’Appello, alla Cassazione appunto. Ed i locali erano sufficienti per tutto; adesso ogni Ufficio Giudiziario ha il suo palazzo, vuoi per l’aumento dei processi; segno di un migliorato tenere della vita che comporta una maggiore convulsione a delinquere; vuoi per l’ambizione dei Giudici che vogliono uno spazio
maggiore, inversamente proporzionale alla loro capacità professionale; vuoi per l’intreccio galante tra i responsabili degli Uffici e gli interessi dei Palazzinari; che hanno raso al suolo tanto verde di Roma per costruire inutili e megalattici Uffici. So per certo che anche la Banda della Magliana era in buoni rapporti con qualche Giudice, che invece di processarla le dava lavoro edilizio.

Quella mattina, al piano terra del Palazzaccio, dinanzi ad una di quelle aule piene di sé, si stipava una folla; mi feci largo dicendo che ero un avvocato, superai con un sorriso minaccioso la barriera armata dei Carabinieri, e riuscii ad entrare nell’aula. Sul banco degli imputati una figura minuta, vestita tutta di bianco come i bambini alla Cresima; ed a quel tempo il banco degli imputati aveva una sua dignità espositiva; su quel banco l’imputato era già separato dal mondo, insignito di una vocazione alla condanna; quella figura biancovestita era Pierpaolo Pasolini, processato per un sui film che aveva destato i fulmini della Chiesa Cattolica Apostolica Romana; e lo Stato, che allora era, come oggi il braccio secolare di quella Chiesa, aveva messo su un processo. Oggi diremmo che era un banale processo di opinione; ma allora erano a confronto la Sacra Opinione della Chiesa e la opinione di un cittadino qualsiasi, anche se già noto come scrittore e regista. Ma era proprio quella notorietà, non del tutto accondiscendente alla Sacra Gerarchia, che turbava il Papa e i suoi emissari secolari.

In quel momento stava parlando il Pubblico Ministero, iroso e bilioso; con la toga stretta al corpo come un Caifa pronto a stracciarsi le vesti; stava attaccando il film oggetto dell’accusa, e pur non avendolo visto, ne chiedeva il sequestro; e chiedeva che a Pasolini fosse impedito, fin che morte ne seguisse, di filmare o di romanzare. Nell’aula era stato installato uno schermo cinematografico; il Presidente ebbe il pudore di interrompere il Pubblico Ministero, e di far presente che la prima cosa da farsi era visionare il film. Il Pubblico Ministero, dimostrando una incredibile sete di accertare il fatto, preannunciò che, durante la proiezione, sarebbe uscito dall’Aula; nessun preconcetto, disse, ma solo scrupolo di credente. Poi chiese che venisse fatto un censimento degli spettatori presenti in aula; e che venissero fatti uscire i minorenni, le donne di ogni età, e chiunque non fosse direttamente interessato al processo. Tanto per farmi conoscere inutilmente, dalla prima fila alzai la voce per ricordare che le udienze sono pubbliche. Il Pubblico Ministero chiese ai Carabinieri di fermarmi, prendere le mie generalità, e redigere un acconcio verbale.; Fu la prima volta, e non sarebbe stata l’ultima, che venivano verbalizzate, a futura non promettente memoria, le mie generalità.

Forse mai come quella volta il Processo mi apparve simile ad un rito sacro; era in discussione  la Religione offesa , in tutti i sensi Maiuscola, e dall’altra le veniva opposta un piccolo uomo, minuto nel suo vestito bianco, che quella Religione aveva offeso con la sua minuscola opinione. Pasolini mi sembrava disperatamente solo, su quel banco sacrificale; e poco contava che tra il pubblico si potessero notare personaggi importanti, Sciascia, Moravia, Enzo Siciliano;erano soli anch’essi; mancava la politica che avrebbe dovuto difendere la libertà di espressione, e che già allora si esprimeva balbettando giaculatorie.