opinioni

Sulla libertà morale intesa come "discorso"

domenica 26 febbraio 2017
di Mario Tiberi
Sulla libertà morale intesa come "discorso"

Mi conforta il sapere che le mie digressioni sulla libera ed onesta partecipazione alla vita pubblica trovano, in molti, accoglienza ed approvazione. I loro commenti e, talora, i loro suggerimenti mi spingono ad avventurarmi in un terreno sì insidioso e, però, essenziale e fondamentale quale quello della suprema fra tutte le libere e corrette esplicazioni dell’umana attività: intendo riferirmi alla libertà morale.
Volendomi ricollegare, a motivo di “incipit”, alle Beatitudini contenute nel Discorso della Montagna, non può non balzare alla ribalta del mio pensiero il vocabolo “Discorso”.

In latino Verbum, ma ancor meglio in greco antico Logos come pure Archè, il Principio del tutto. Logos racchiude in sé una miriade di significati quali, solo per citarne alcuni, ragione, esposizione verbale, rappresentazione concettuale, discorso, parola, dialettica, ma anche e soprattutto iniziativa ed azione. Ed ecco che allora, alla luce del principio che la Fede senza le Opere è virtù infeconda, la prima delle Beatitudini, e cioè il proclamare che saranno Beati e dunque Felici i Poveri in Spirito, diviene il cardine su cui poggiare l’intera galassia della Libertà morale o, meglio ancora, dell’Etica applicata alla estrinsecazione di tutte le altre libertà. Nell’oggi, del resto, l’aggravarsi e l’accentuarsi della decadenza etica nei comportamenti pubblici, di pari passo a quelli privati, mi inducono a riprendere il filo di un ragionamento già avviato sulla scia, anche, delle mie sempre attuali riflessioni contenute nel saggio titolato “Il modello De Gasperi”.

Se chiunque coinvolto nel malcostume, incautamente o per superficialità, possa pensare anche solo lontanamente di poter sfuggire, quanto meno, al biasimo collettivo per le proprie malefatte, si sbaglia di molto; per parte mia, in virtù di pace e quiete di coscienza, continuerò a prodigarmi affinché sempre in alto sia tenuto il grado della vigilanza democratica e della non dispersione nella smemoratezza dei fatti e degli atti contrari alle norme dell’Etica e a quelle della Legge. Sono altresì ampiamente consapevole che l’alzare l’indice e il puntarlo contro corrotti e corruttori possa aprire la strada al rischio di essere tacciato di facile moralismo o, ancor peggio, di falso moralismo qualora, ad una sana professione di moralità, si lasci spazio ad un calcolato esercizio moralistico di maniera a corrente alternata. Ma è un rischio che mi sento di correre a tutto tondo!

Oramai risulta chiaro all’intelligenza di ogni onesto cittadino che i partiti dello “ancien regime” hanno invaso e occupato ogni settore – enti, banche, aziende, radiotelevisione e quant’altro – ed esercitano tutti i mestieri, tranne il loro, cosicché non funziona più nulla, nemmeno la politica. Tale realistica constatazione ci assilla da circa un trentennio e già, sul finire degli anni settanta del secolo scorso, fu scontro acceso tra coloro che sollevarono, per primi, la “Questione Morale” e coloro che la negavano. L’unica colpa che, a posteriori, si può addossare a quelli che sostennero la necessità di “fare pulizia” risiede nella circostanza che, guardando solamente in casa d’altri, sfuggì loro quasi del tutto lo sporco che albergava in casa propria. Proprio ciò che avviene anche nel presente dell’oggi, ad iniziare dagli esponenti del governo in carica e da quelli del maggiore partito, il PD, che lo sostiene.

Così certo, continuando a far finta di niente, non si può andare avanti. La corruzione seguita a trionfare, apparentemente inarrestabile, ad ogni livello amministrativo e in ogni anfratto pubblico dove la politica, quella maldestra e truffaldina, riesca ad infilare la sua mano lesta.
Del resto, il significato politico della attuale avvilente congiuntura è di tutta evidenza per chi ha ancora occhi per vedere e orecchi per sentire. L’Italia si è data un sistema che offre troppi spazi ai partiti i quali, subdolamente, hanno finito per abdicare ai loro doveri istituzionali trasformandosi in consorterie che puntano a tutto, anche e specialmente all’arricchimento individuale e alla spartizione delle postazioni di comando, tranne che al bene comune. Se ne “infischiano” altamente degli interessi nazionali; pensano ai propri e primo, tra essi, il mantenimento a tutti i costi del potere raggiunto e da non cedere ad altri per nessuna ragione al mondo: la politica non più come servizio, ma come carriera professionistica da cui trarre benefici, privilegi, condizioni di favore o come “refugium peccatorum” per falliti, inetti, incapaci o, peggio ancora, per veri e propri malavitosi.

Da qui, dalla palude del malcostume, al furto delle coscienze il passo è davvero breve: la linea di demarcazione tra lecito e illecito sta divenendo sempre più labile e a furia di parlare, spesso a sproposito, di moralità non praticate, le stesse si sono svalutate al punto di svanire in una sorta di dissolvente evaporazione tanto da non saper più distinguere ciò che è morale da ciò che non lo sia. La malapolitica cleptocratica sembra sentirsi al riparo da ogni punizione ma, chi ruba, dovrà ineluttabilmente saldare sino in fondo il suo conto debitorio con la Giustizia, nel nome delle leggi scritte e massimamente di quelle naturali ed etiche che sono: une, indivisibili, innegoziabili, immutabili, universali in quanto intemerate, eterne, indipendenti dal tempo e dallo spazio. Non vorrete mica che io aggiunga dell’altro?!?