opinioni

Allora non esisteva l'Erasmus

lunedì 23 gennaio 2017
di Fausto Cerulli
Allora non esisteva l'Erasmus

Mi scuseranno i miei trentacinque lettori se stavolta mi occupo di una vicenda personale. Il fratello di mia moglie è morto a Milano. Si chiamava Luigi Mattioli. Forse il suo nome dirà qualcosa soltanto agli amici ancora vivi. Una morte aspettata, ma non per questo meno dolente per chi resta. Parlo di lui perché a 18 anni appena compiuti andò a lavorare in Africa. Già allora la patria natia non offriva sbocco di lavoro ai cittadini italiani. Non era ancora esploso il boom economico, che del resto non avrebbe cambiato nulla per i giovani di allora. L’Erasmus era ancora da venire. Andare a lavorare all’estero, a quei tempi, era una sorta di scommessa, un salto nel buio.

All’estero un italiano per sbarcare il lunario doveva lavorare sodo, e all’inizio almeno sottopagato. Luigi per arrotondare la paga si trovò costretto a proiettare pellicole agli indigeni, e se il film non era gradito, magari gli toccava fuggire nelle boscaglie con tutto il proiettore, con il rischio di imbattersi in qualche animale feroce. Non era un temerario, anche se era coraggioso, ma non aveva intenzione di mollare. Non aveva intenzione di tornare in Italia, aveva fatto il salto. E il salto da Orvieto all’Africa non è un salto da nulla. Poi, con il tempo e con l’intelligenza e la tenacia, trovò un posto importante in una società italiana. Lo raggiunse la moglie, sposata per procura, ed anche questa circostanza ha qualcosa di particolare, che non capita o almeno non capitava spesso. Una vita comunque piena di avventure, affrontate senza leggerezza. Non so e non mi importa sapere se fosse diventato ricco o quantomeno agiato.

Quello che so è che quando tornò in Italia quasi non conosceva più l’italiano, o almeno lo parlava con accento inglese. Riabbracciò la madre dopo moltissimi anni, oggi i giovani, non certo per colpa loro, non si staccano da casa, se non altro per usufruire della pensione dei genitori o della nonna. Ma non mi sembra il momento di polemizzare. E torno a dire di Luigi, persona sempre elegante e raffinata, al punto che quando tornava ad Orvieto poteva passare per snob, ma la sua eleganza era un’eleganza innata, magari accresciuta dalla lunga esperienza in terra d’Africa, con nuovi amici inglesi, non colonialisti come si pensa. Lo ricordo spiritoso e brillante, e non gli mancava un qualche humour inglese, di quelli che ti lasciano spiazzato.

Ma di fondo era restato un ragazzo avventuroso. Siamo andati a trovarlo a Milano, al San Raffaele, e si sforzava di scherzare anche se dai suo sguardo capivamo che sapeva di morire. La morte lo ha colto di notte, e forse è tato meglio così: ho sempre pensato che se si deve morire meglio morire nel buio per passare ad altro buio. Io e mia moglie non eravamo con lui quando è spirato, ma in ogni caso, come diceva De Andrè, quando si muore si muore soli. Ora siamo noi vivi ad essere soli, senza la sua presenza generosa. Ho voluto parlare della sua vita mentre piangiamo la sua morte. Mi dicono che si è spento serenamente. Tutti, a quanto pare, muoiono sereni, ma è una leggenda metropolitana. Io, lo dico fin da adesso e a futura memoria, quando sentirò che sto per morire, penso che non sarò affatto sereno. Ora è finita una vita avventurosa. Speriamo che nell’aldilà, se esiste, si trovi finalmente pace.