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Arrivai che stava facendo notte

lunedì 16 gennaio 2017
di Fausto Cerulli
Arrivai che stava facendo notte

Arrivai che stava facendo notte. Ne fui in qualche modo rasserenato, avrei avuto un motivo di più per pernottare in quella casa in cui non entravo da vent’anni. E qualcosa mi diceva che senza quel pernottamento mi sarebbe mancato qualcosa per fare pace con me stesso. Le finestre esposte a nord erano chiuse, e non ne filtrava alcuna luce: ma era una vecchia usanza di quella casa e di chi l’aveva abitata per almeno due secoli. Quelle finestre chiuse erano un segnale di distacco dal paese, non per mania di grandezze ma per una specie di riservatezza pudibonda. Come se quelle finestre chiuse fossero occhi serrati sulle realtà che si erano svolte tra quelle mura, e di cui nel paese si parlava ma non si sapeva nulla con precisione: anche molti di quelli che avevano abitato quella casa non conoscevano con precisione i fatti. E tra quelli che non sapevano tutto, ero appunto io. E appunto per questo mi ero deciso a quel viaggio. La casa era di fronte al paese, separata da esso da un dirupo coperto di castagni.

A quell’ora potevo soltanto immaginare il paese, dalle poche luci che trapassavano gli alberi. Restai seduto in macchina a pensare: forse un quarto d’ora, forse una frazione di eternità. L’ultima volta che avevo visto Laura era stato appunto venti anni prima: dopo cena, eravamo molti quella sera in casa, cominciammo a ballare per gioco. Ricordo che mi trovai a ballare con Laura: forse avevamo bevuto qualcosa di troppo, forse era quell’atmosfera di intimità che si crea quando si sta abbracciati in mezzo alla gente. Fatto sta che ebbi una improvvisa erezione, e lei dovette sentirla: feci per scostarmi imbarazzato- era mia cugina, in fin dei conti- ma lei mi spinse con forza il pube contro la mia goffa durezza. Le appoggiai le labbra sul collo, e spinsi una mano sul suo seno acerbo. Aveva le labbra socchiuse, il respiro che si faceva aspro.

Tutto finì rapidamente come era cominciato; io mi trovai a ballare con un’altra ragazza, lei si sedette su un divano come a riprender fiato. La mattina dopo lasciammo tutti la casa, per destinazioni diverse. Da allora non avevo più avuto occasione di vederla, ci eravamo scambiati i saluti per le feste, avevamo dimenticato quel momento. Poi mi trovai spinto a ritornare in quella casa: e in quella casa abitava ora Laura, da sola. Avevo saputo che aveva avuto una complicata storia affettiva, e che ne era uscita a pezzi. Ma soltanto adesso mi tornava in mente quell’abbraccio brusco, quell’improvviso desiderio che ci aveva segnato più di quanto non potessimo pensare.  Stavo per tornare indietro, quel pensiero mi faceva sentire in colpa come se tra me e lei ci fosse stata una tempestosa avventura sessuale e non una semplice momentanea infatuazione del tutto fisica. Ma sapevo che Laura mi aspettava, le avevo detto che sarei arrivato entro le otto di sera, non mi andava che si preoccupasse e magari mi cercasse a casa, E poi dovevo risolvere quella questione; era troppo importante: e dovevo partire da quella casa, da qualche storia di quella casa.

Alla fine mi decisi a suonare il campanello, sentii un cane abbaiare, poi al citofono la voce di Laura che chiedeva sei Fausto, e non lo chiedeva, lo affermava, ed era strano che quella voce fredda mi facesse pensare ad una irreparabile solitudine. Il portone si aprì, il cane fu zittito, Laura mi aspettava in cima alla scalinata. Un’apparizione sconcertante; mi sorprese che non mi sorprendesse. vestita con un abito scuro ed un collo bianco di trina, qualcosa tra una suora ed una collegiale. Dal basso potevo vederle le gambe, lunghe e magre come le ricordavo, inguainate da un nylon molto scuro fuori moda. Salii le scale quasi in fretta: sul pianerottolo mi porse le mani da stringere, la baciai quasi di sfuggita su una guancia. Poi come per caso le nostre labbra si sfiorarono; ed io come per caso le appoggiai la lingua sul collo. Lei ebbe una sorta di sussulto, poi sorrise e disse: “ ripartiamo da quella sera?” Le sorrisi anche io e fu come se ci fossimo sorrisi per tutti quegli anni. E di nuovo sentii salire in me una strana torbida eccitazione. Avrei voluto stringere il suo corpo contro il mio, ma si distolse. Mi disse di accomodarmi, di mettermi a mio agio.

Mi indicò la stanza che aveva destinato alla mia notte: da bambini la chiamavamo la stanza dei forestieri, era quella destinata agli ospiti. Mi fece star male il pensiero di sentirmi ospite, lei se ne accorse e disse che potevo scegliere la stanza che volevo. “ Tranne la mia stanza da letto, ovviamente” aggiunse con una serietà che mi sembrò molto maliziosa.

Scelsi la stanza dove aveva sempre dormito mio nonno. E nel pensare a quel mio nonno mi tornò in mente che mio nonno era anche il nonno d lei; e che dunque ci legava una parentela comunque stretta. E nella parte più torbida della mia mente, alla normale eccitazione di trovarmi solo con una donna, si aggiungeva ora la sottile perversione di un quasi incesto.

Mi rinfrescai, poi la raggiunsi in salotto: era rimasto tutto come allora. Le poltrone scomode coperte di damasco, i tappeti troppo scuri, le luci ovattate. Lei non si era accorta che ero entrato. Era intenta a preparare un tè o qualcosa di simile, la raggiunsi alle spalle e le sfiorai la schiena. Ebbe un movimento di paura, si girò di scatto: poi si riprese, mi fissò con i suoi occhi verdissimi. E mi disse, con voce apparentemente tranquilla, che aveva pensato che mi avrebbe fatto piacere bere qualcosa di caldo. Sentii ancora una malizia nelle sue parole, ma la malizia ero io e non lei. Del resto, di fronte a quel verde che ora penso magico dei suoi occhi tutte le storie di tutte le streghe del mondo potevano tornare in mente.

Mi prese una mano, se la poggiò sul seno, volle che lo stringessi. Poi si sciolse i capelli, si sedette sul divano dove avevamo giocato al dottore quando eravamo bambini. Cercai di toccarle le gambe sotto la gonna. Lei mi disse di non farlo, me lo disse con dolcezza. E poi aggiunse “ ora non è più tempo, abbiamo perso troppo tempo, anni ed anni”. Mi accompagnò fino alla porta della stanza dove avevo scelto di dormire. Mi dette un bacio su una guancia, e mi disse dormi sereno, sereno, sereno. E dormii come dopo una lunga fatica. Un sonno senza sogni.

La mattina, mentre facevamo colazione insieme, lei mi disse.”Sei l’unico a non averlo saputo; ed è giusto che ora tu lo sappia. Nostra nonna è morta in un manicomio Per questo io e te siamo fragili di nervi. Molto fragili”. Decisi di partire presto. Non volle accompagnarmi alla macchina: mi guardò dalla finestra, mi salutò con un sorriso quasi tragico. Ora riconoscevo nel suo volto quello di nostra nonna, che avevo vista soltanto in una foto sbiadita, di quelle degli anni trenta, con il bordo scuro. Molto scuro. Mi ero sempre chiesto perché a casa nostra non si parlasse mai di mia nonna. Ma non avevo voluto saperlo. Ora lo sapevo: me lo aveva detto Laura, che era la mia nonna rediviva e casta. E mi faceva meno male, adesso, sapere il perché del mio stare spesso molto male.