opinioni

Tra democrazia e demagogia

lunedì 19 dicembre 2016
di Mario Tiberi
Tra democrazia e demagogia

Esiste una norma basilare, incontrovertibile ed inattaccabile, a cui ogni persona civile non osa ribellarsi: le Costituzioni degli Stati moderni e democratici sono fondate sul principio assoluto ed universale della “major pars”, ossia della maggioranza. Quando i cittadini, con il loro voto libero e segreto, manifestano la volontà, attraverso la maggioranza della metà più uno, di voler conferire il governo della “res publica” a taluno piuttosto che a tal’altro e, una volta accolto in via definitiva tale principio nella silloge delle leggi, osservata una politica autarchica oppure cooperativistica, nazionalizzati ovvero affidati alla privata iniziativa porzioni o il tutto di un sistema economico, concepito un piano di sviluppo governato dall’alto invece che regolato dal libero mercato, preferita la libertà dell’insegnamento al monopolio scolastico dello Stato o viceversa, scelto il sindacato unico obbligatorio rispetto ai sindacati plurimi e molteplici oppure il contrario, quando in sostanza la maggioranza dei cittadini ha votato, direttamente o per mezzo dei suoi rappresentanti, nell’uno o nell’altro senso, le sue deliberazioni diventano dirimenti, risolutive, legittime e conformi alla legge.

La questione democratica, e con essa tutte le questioni a lei stessa conseguenti, è così decisa e alla minoranza non rimane che inchinarsi al volere dichiarato dai più e, ciò, ha valore anche se la minoranza sia composta di quarantanove su cento e minima sia la disparità con la maggioranza dei cinquantuno. Se così non fosse, sarebbe certamente più antietico e irrazionale che i quarantanove comandino ai cinquantuno di quanto non sia morale e ragionevole che la volontà dei cinquantuno prevalga su quella dei quarantanove. Tutta la logica del governo democratico risiede in codesto semplice, nudo ed ineccepibile ragionamento. Tutto giusto, ma a chi Vi scrive tale giustezza non compiutamente persuade fino al punto da non poterla, quantomeno, sottoporre a giudizio critico e riflessivo. Avverto istintivamente che vi può essere una tirannia dei cinquantuno altrettanto disumana, altrettanto odiosa, altrettanto oppressiva come lo è la tirannia dell’uno o dei pochissimi sui cento.

Da secoli e forse da millenni la sapienza filosofica, ma anche quella popolare, ha imparato a distinguere tra la democrazia e la demagogia e, cioè, tra la democrazia che è il governo della maggioranza “vera” e la demagogia che è, invece, il governo della maggioranza “falsa”. Ambedue sono il governo che deriva dai cinquantuno sui cento e, pur tuttavia, vi è nell’aria, nel metodo di governare, nelle leggi, nello stile di vita, nei costumi, nelle relazioni sociali, nella vita spirituale, qualcosa che mi porta ad affermare che quello non è governo di popolo: non è infatti governo di una maggioranza che abbia tutti i requisiti necessari ad esercitare il diritto a governare.

Se la maggioranza rappresenta la “major pars”, non è detto che automaticamente sia la “sanior pars”, vale a dire la parte più sana e saggia della società e, così, può accadere che i “meliores” rimangano troppo spesso tra i meno ed i “pejores”, altrettanto troppo spesso, dominino sui più e parlino come se fossero la voce di tutti. Accade ciò perché tra i più sono numerosi gli ignari, i quali non hanno spiccata attitudine a giudicare le grandi questioni della “cosa pubblica”; vi sono inoltre i poltroni, pronti ad usare il potere di coazione delle pubbliche funzioni per vivere a spese di coloro che si affaticano nel lavoro e producono; vi sono ancora gli egoisti individualisti, riluttanti a sacrificare il momento che fugge alle ragioni dell’avvenire; e poi, infine, vi sono i procaccianti, prodighi promettitori alle folle di magnificenze e strabilianti realizzazioni.

Chi non conosce la difficoltà del mantenere, largamente promette e procaccia a sé l’ingenuo suffragio delle maggioranze; inganna così il popolo poiché non gli rivela che né le classi politiche e né i ceti dirigenti non sempre si identificano con i migliori, mentre invece il fine della società democratica è quello di identificare gli eletti con la “sanior pars” del ceto politico.
Oltre non voglio andare: basti ammonire il popolo elettore che, nello scegliere le maggioranze, è suo prioritario dovere accordare la propria fiducia a quelle, e soltanto a quelle, che siano in grado di offrire ampie garanzie nel saper esprimere i loro migliori talenti, sia per meriti, sia per competenze e conoscenze, e sia per costante applicazione allo studio.

P.S.: colgo l’occasione per rispondere ad uno stimato concittadino, acuto osservatore delle vicende umane del nostro tempo, che mi ha interrogato se, nella ricerca di una occupazione lavorativa, debba prevalere il desiderio di sicurezza o, non piuttosto, quello di avventura. La crisi profonda dell’economia italiana, così rispondo, indurrebbe a pensare di trovare protettivo rifugio in un impiego stabile e sicuro; per uscire, però, dalla stagnazione è necessario e urgente riscoprire il gusto del rischio intraprendente, soffiare da sotto il naso degli americani lo spirito “Yankee”.