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Il Duomo: lo spazio dove l'Arte celebra la Fede

sabato 30 aprile 2016
di Don Stefano Puri
Il Duomo: lo spazio dove l'Arte celebra la Fede

Dopo il convegno dello scorso 14 aprile, svoltosi nella sala conferenze dei Musei Vaticani a Roma, si torna a parlare della ricollocazione delle statue dell’Annunciazione di Francesco Mochi e dei Dodici Apostoli, bandite dall’interno della Cattedrale nei restauri del 1897. Il convegno in questione è stato, almeno per me che vi ho partecipato dall’inizio alla fine, ma credo anche per le tante persone presenti, un momento importante per comprendere il dono e la responsabilità che a noi orvietani è stata concessa non solo di avere e di custodire, ma soprattutto di “abitare” un luogo unico, singolare, speciale, quale è il nostro Duomo.

Personalmente ho imparato ad amare e rispettare questo “spazio”, soprattutto da quando ho avuto la possibilità di entrare in una particolare relazione con esso, sia condividendo per due mandati con altre persone l’onere e l’onore di far parte dell’Opera del Duomo, sia ora come Presidente del Capitolo della Cattedrale. Dall’interno di queste realtà, infatti, ho potuto rendermi conto della complessità e delle problematicità che derivano, dal suo essere un “monumento unico al mondo”, che richiede da parte nostra, nell’avvicinarlo e nel parlare di esso, una grande umiltà; quasi un rispetto reverenziale per quello che non è solo, né primariamente, un “Monumento”, ma principalmente uno “Spazio “ dove il Sacro irrompe e addirittura si incarna nell’atto cultuale che, poi, è la vera ragion d’essere del nostro Duomo, come di ogni chiesa anche la più modesta.

Non ci dimentichiamo, che il Duomo c’è per la liturgia, cioè per quell’atto sublime che permette a me, creatura finita e limitata, di essere “visitata” dalla Grazia, che non è suggestione passeggera ed effimera, ma è carne e sangue prima di Cristo e poi, attraverso di lui, mia. La nostra fede, che il Duomo celebra in ogni sua pietra, anche la più nascosta, non è un qualcosa di “disincarnato”, ma una realtà che si fa mia carne e mio sangue, che entra cioè in relazione con la mia vita “hic et nunc”, che assume quello che in questo momento sono di bello e di brutto, di positivo e di negativo, tutta la mia umanità insomma, e la rialza, le ridà dignità, mettendomi in comunione con quel Cristo che per salvarci ha scelto la via, per noi qualche volta sconcertante, dell’Incarnazione.

Se consideriamo il Duomo a partire da questa sua valenza, comprendiamo allora che tutto quello che in esso l’arte ha prodotto è generato dalla fede. Ogni pietra, ogni pennellata di colore, ogni colpo di scalpello, tutto all’interno del Duomo serve a rimandarci a quell’Assoluto che non solo non ci è estraneo, distante, irraggiungibile, ma al contrario ci appartiene e noi ci rispecchiamo in lui e in esso siamo “trasfigurati”.
Certo, allora, che il Duomo non è un museo! Esso non è un contenitore di opere sublimi, ma è quel qualcosa che permette a queste opere d’arte di ritrovare un’anima che ci parli, che ci ispiri, ci faccia trasalire di bellezza, quella bellezza che ci parla di Dio, una “bellezza” che riempie e annulla le “brutture” che noi siamo capaci di produrre se ci stacchiamo dall’ “Unico Necessario”, secondo una felice espressione del Beato Paolo VI.

Mi sembra che oggi, seguendo la moda di una fede un po’ “new age”, che però non è la fede cristiana, si cerchi una purezza falsa, una spiritualità fittizia, aleatoria, che non ha relazione con la carne e il sangue della nostra vita ed è pertanto inutile. Ogni volta che nella storia della Chiesa si è seguita la strada di una spiritualità disincarnata, si è caduti in uno spiritualismo dannoso, del quale ancora si vedono i frutti in quello iato che si è prodotto tra le persone, che vivono sulla propria pelle i problemi e le difficoltà di oggi, e la religione che rischia di non essere più capace di dare risposte a queste esigenze.

La ricollocazione delle statue dell’Annunciazione e degli Apostoli al “loro posto”, ora rimasto vuoto, all’interno della Cattedrale, sarebbe un ridare “anima” a queste opere che proprio perché all’interno di una chiesa non faranno più muta mostra di se stesse (come avverrebbe in un ambiente asettico come un museo), ma torneranno a parlare il linguaggio della fede, a cantare con la loro plasticità il rapporto che c’è tra un corpo materiale e la sua anima spirituale, suscitando ancora nei fedeli e nei visitatori quella meraviglia che prende sempre più difficilmente l’uomo di oggi e che, invece, secondo il Vangelo, è la via maestra per abitare la “Gerusalemme del cielo”, di cui il nostro Duomo è immagine e figura.

D’altra parte non ci dimentichiamo che il “gran teatro barocco”, che secondo alcuni nuoce alla vera spiritualità, era stato introdotto anche nella nostra Cattedrale con un preciso obiettivo: suscitare meraviglia, una meraviglia che doveva essere il volano verso l’Assoluto. Oggi, con la ricollocazione delle Statue in Duomo, abbiamo in primo luogo la possibilità di riaprire una sorta di “dialogo” tra il transetto e la navata della Cattedrale, che ora appaiono quasi realtà distinte e, soprattutto, contribuire a far percepire più intensamente quel dialogo con l’Assoluto che la liturgia realizza attraverso due componenti inseparabili: la parola e la realtà materiale, secondo quanto insegna sant’Agostino:“accedit verbum ad elementum et fit sacramentum” (Cfr. S. Agostino: In Evangelium Iohannis tractatus, 80,3).

Quando la parola detta, entra in relazione con l’elemento materiale -che non è altro poi che la nostra vita- si realizza, infatti, il sacramento, cioè la nostra intima comunione con Dio e con chi ci vive accanto. Anche nei momenti in cui la liturgia non viene celebrata, il Duomo deve parlare questo linguaggio e lo fa unendo l’afflato spirituale che in esso si percepisce con la realtà materiale delle sue opere d’arte, anch’esse finalizzate al culto e non estranee ad esso.