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La badante

domenica 14 giugno 2015
di Fausto Cerulli
La badante

L’avvocato, in una grigia stanza del carcere, stava parlando con il suo assistito. Un giovane dal viso dolce, triste e rassegnato come succede agli innocenti veri. Quelle visite erano una specie di opera di misericordia, dar da bere agli assetati, visitare i carcerati. E si capiva che quel giovane aveva bisogno di parlare, di sfogarsi, di raccontare la sua vita di prima per far capire che era stata una vita giusta. E l’avvocato gli credeva, lo ascoltava come si ascolta un amico, qualche volta gli veniva in mente di sfogarsi con lui per la sua vita grama di avvocato.

Succede, anche se è raro, che si crei questa specie di confidenza quasi complice; e succede soprattutto quando il detenuto è innocente, e l’avvocato lo sa. In fin dei conti i detenuti e gli avvocati sono entrambi prigionieri della legge; il detenuto perché la legge lo ferisce spesso a torto, l’avvocato perché odia quella legge fatta di pressappoco, di latinismi, di formule sacramentali: e il detenuto e l’avvocato odiano quella legge, perché tutti e due la debbono subire. L’avvocato stava pensando a questo, quando una guardia venne ad annunciare al detenuto che l’aspettava qualche parente per un colloquio. L’avvocato si affrettò a salutare il suo cliente, non voleva rubargli neppure un minuto del colloquio.

Quei colloqui tristissimi, che si svolgono in una stanza disadorna, un tavolo e due sedie; e una guardia che controlla, magari blandamente, ma controlla. Quando fu giunto nell’atrio del carcere, l’avvocato si rivolse ad un gruppo di persone che attendevano di essere ammesse a colloquio con i parenti detenuti: e chiese chi fosse il parente del sig. Rossi, chiamiamolo così il detenuto.
Gli rispose una donna molto bella, bionda e dalle gambe senza fine. Sono io, disse, sono la convivente. Non era italiana, disse all’avvocato quando capì che era l’avvocato del suo uomo.

E aggiunse, per evitare che l’avvocato bussasse a cassa, che non aveva soldi, faceva la badante. E poi si tolse dal volto la maschera della sicurezza e pianse, pianse molto. Lagrime che le sfacevano il trucco, ma facevano più brillante il blu dei suoi occhi. Che brutto posto, diceva nel suo pianto; che brutto posto il carcere. E aveva visto appena l’anticamera. L’avvocato le disse di farsi coraggio, che il suo compagno sarebbe uscito presto: e che volete che dica un avvocato a un parente angosciato? Una menzogna come un’altra, una bugia pietosa.

Poi si aprì con rumore di ferro il cancello che portava all’interno del carcere; e la donna fu fatta entrare; ma prima di entrare girò il volto verso l’avvocato, si asciugò le lagrime, abbozzò un sorriso quasi infantile, e in fondo disperato. L’avvocato, preso da un sentimento strano, decise di sedersi su una panca e di attendere che la donna, terminato il colloquio, uscisse dal cancello. E intanto pensava alle carceri spagnole, dove il detenuto ha diritto di trattenersi con la sua compagna in una stanza decente, con un letto e un lavabo, e di scambiarsi effusioni, anche sessuali.

E si trovò a pensare al suo assistito che faceva l’amore con la sua compagna, un amplesso cronometrato ma pur sempre un amplesso. Invece il suo assistito avrebbe avuto il permesso di toccare soltanto le mani alla sua donna, di sussurrarle parole dolci, ma molto sottovoce, per via della guardia che controllava, blandamente, ma controllava. E poi avrebbero potuto baciarsi sulle guance, come si fa alla stazione quando uno parte e l’altro resta.

La donna fu sorpresa di trovare l’avvocato nell’atrio; lei pensava che gli avvocati hanno tanto da fare, e non si riposano mai, e corrono sempre dietro ai soldi e i soldi corrono dietro e davanti a loro. Invece quell’avvocato se ne stava tranquillo su una panca: e lei, con la malizia buona delle donne quando sono maliziose soltanto perché sono donne, capì che l’avvocato stava aspettando lei. L’incontro con il suo compagno doveva essere stato straziante, come tutti gli incontri che finiscono presto, troppo presto.

L’avvocato le chiese gentilmente se poteva offrirle un caffè: lei accettò sena riserve, sentiva che quell’ avvocato non aveva cattive intenzioni. Andarono in un bar del centro, si sedettero, lei chiese se poteva prendere un succo d’arancia, molto rosso. Lui ordinò il solito caffè, era il quarto di quella mattina: e la cameriera aggiunse al caffè una spruzzata di cacao. Conosceva quel gusto strano dell’ avvocato. Poi parlarono a lungo del detenuto, lei voleva sapere quanto tempo sarebbe rimasto ancora in quel carcere: e l’avvocato, mentendo, disse che era questione di giorni.

Al diavolo chi dice che il medico pietoso fa la piaga dolorosa: le piaghe sono tutte dolorose e un poco di pietà serve a lenire per qualche ora un tormento. La donna disse che era venuta in autobus dalla città grande, e che doveva aspettare tre ore prima che ripartisse l’autobus per tornare a casa. L’avvocato non se la sentì di lasciarla sola; e non perché era una donna bella, e triste, e molto innamorata del detenuto che adesso dalla cella del carcere pensava a lei. E forse piangeva come un bambino rimasto solo al buio. Allora l’avvocato decise di improvvisarsi cicerone, di farle conoscere la cittadina: e la portò a vedere la Cattedrale, e poi i Palazzi. E cercava di divertirla, di raccontarle episodi giocosi, di inventarle storie allegre.

E riuscì quasi a distrarla, a farla sorridere. Furono in molti a notare l’avvocato con quella bella donna, e a farci sopra commenti salaci. Li videro addentrarsi nel quartiere medievale, quasi allegri. La mattina successiva, all’alba, trovarono i loro cadaveri ai piedi della Rupe. Dall’autopsia risultò che la donna aveva accoltellato a morte l’avvocato. Poi si era gettata nel vuoto trascinando con sé il corpo dell’avvocato, già morto.