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Amica di lago

domenica 14 giugno 2015
di Fausto Cerulli
Amica di lago

Con la mia amica più amica passammo una giornata spensierata; lei aveva una ironia sottile, raffinata, che mi faceva sentire a mio agio; mi rassicurava, sempre, e specialmente quel giorno. Aveva una sua tristezza di fondo, quasi cristallizzata al punto di far parte dei suoi lineamenti. La conoscevano tutti, in quella cittadina divisa in parchi senza alberi, affacciata su un lago che non era lago. La chiamavano la professoressa, aveva insegnato filosofia e a me la insegnava ancora. Andammo a fare spese; in un negozio mi chiesere se ero il padre della professoressa, risposi che ero il nonno. Poi ne ridemmo a lungo, ma mi sentivo vegliardo.

La sera andammo in un cinema di Napoli a vedere un film che ci sembrò comico, per via di uno degli attori che vomitava vermi, Stavamo vicini come due quasi innamorati; commentavamo ridendo le scene del film. Fummo zittiti, Poi qualcuno ci ha detto che era un bel film, e ci siamo sentiti stupidi ed abbiamo detto che a pensarci bene era un bel film. Madonna, che schifezza.
La mattina dopo mi acccompagnò alla Stazione Centrale, mi comprò il biglietto e due giornali; mi disse grazie per la giornata, le dissi grazie a te.

Tornai a Napoli il giorno del processo; la cosa più difficile fu trovare l’aula; su n cartello c’era scritto che il mio cliente sarebbe stato processato nell’aula numero 10, in un altro che il processo avrebbe avuto luogo nell’aula numero 2, due piani sotto. Chiesi chiarimenti ad un usciere; mi disse avvocà si giochi il 10 e il 2 sulla ruota di Napoli. Ambo secco. Alla fine trovai l’aula giusta; la moglie del mio cliente mi attendeva fuori, leggermente innervosita; il processo stava per cominciare, Mancava solo il mio cliente; secondo logica e buon senso sarebbe potuto venire in auto con la moglie, Ma., essendo agli arresti, anche se domiciliari, doveva essere portato al processo con un furgone della polizia penitenziaria e quattro agenti di scorta; giustizia ingiusta e spendacciona.

Quando fummo tutti presenti, chiesi di nuovo di poter patteggiaree la pena; ed il pubblico ministero, potente del suo impotente potere disse no. Gli chiesi di motivare il suo dissenso; disse che non era tenuto a farlo: il Presidente, un napoletano dalla faccia annoiata da una vita vissuta inutilemente, gli disse che doveva motivare. Ed il pubblico ministrerò motivò co quattro stupidaggini di fila, ma in fila con il codice. Fu introdotto il primo teste; un esperto di banconote, professione a vacca. Gli fu chiesto se le banconote erano falsificate bene; rispose che erano perfette.

Perlomeno il mio cliente non era un perditempo. Poi, con aria svagata, gli chiesi quanto poteva costare l’apparecchiatura trovata al mio cliente; grosso modo, gli dissi, non chiedo una perizia. Disse che ci volevano almeno trenta milioni delle vecchie lire per apprestare un laboratorio come quello. Poi chiesi di poter interrogare il mio cliente; gli chiesi quanto guadagnasse, mi disse con franchezza che era mantenuto dalla moglie. A questo punto il pubblico ministero gli chiese di fare i nomi di chi lo aveva foraggiato per metter su la fabbrichetta clandestina. Disse che non conosceva i nomi, e se li conosceva non li avrebbe detti neppure sotto tortura.

Poi passammo alla discussione; il pubblico ministero sottolineò la gravita del reato, che colpisce l’economia nazionale: manco fosse stato Sindona o Andreotti, il mio cliente. Chiese sette anni di reclusione, da scalarsi a sei per l’incesuratezza. Io parlai molto poco; misi in evidenza la scarsa capacità economica del mio cliente e quindi la impossibilità, per lui, di metter su quella apparecchiatura. Sostenni quindi che il mio cliente era l’ingranaggio più debole di una macchina forte; e che quindi doveva essere considerato un concorrente di secondissimo piano, nel reato.

In genere, a questo punto, il Tribunale si ritira; ma la procedura partenopea prevede altri riti, Il Presidente si scusò, disse che doveva partecipare come consulente ad un consiglio di amministrazione. Venne un nuovo Presidente; parlottò con il cancelliere e con gli altri giudici; tanto per farsi un’ide di quello che doveva decidere in nome del Popolo Italiano. Poi la Corte si ritirò; fu accolta la mia tesi difensiva: il mio cliente fu condannato a due anni con la condizionale, in quanto concorrente minore nel reato; in concorso con pene rimaste ignote per comprensibile omertà dell’imputato.