opinioni

Eluana

sabato 2 maggio 2015
di Fausto Cerulli
Eluana

Se non fosse stato per quel benedetto angelo custode che le avevano messo alle costole loro, i responsabili del Paradiso, per ricordarle che doveva sentirsi beata di tuffarsi nella gloria di Dio come nel lago di Silo; se non fosse stato per tutti quegli spiriti eletti che erano circonfusi di luce per non pensare al buio dell’ultima notte; se non fosse stato che era morta, anche se ospite del Paradiso; se non fosse stato per tutto questo, le sarebbe venuto da ridere. E allora cercava di ricordare, anche se il suo angelo custode le diceva che il ricordare è peccato, è come rimpiangere la vita terrena, e preferirla quasi all’eterna, ed eternamente beata.

Ma lei si rifugiava su una nuvola di quelle che si vedono sui soffitti delle Chiese di campagna; e si faceva ricordo. Le suore che l’avevano accudita, le volevano bene, e la veneravano quasi fosse una reliquia, e la volevano tenere con loro, così anche loro sarebbero diventate sante o almeno beate. Quante volte avrebbe voluto dire loro che era tutto inutile, che lei era morta, e che le strozzava la gola quella specie di sondino con cui le davano da mangiare e da bere. Ma non poteva dire loro che era tutto sprecato, che lei era morta e stava in Paradiso; non le voleva deludere, in fondo erano in buona fede, anche se satanicamente accanite.

E poi, se avesse fatto sentire la sua voce per dire che era morta, loro avrebbero gridato che la donna aveva parlato, e che dunque era uscita dal coma, e dunque era viva Sì, un tempo era stata viva; una ragazza come tante, con gli amori e le delusioni, con il moroso e l’amico geloso, e le compagne di scuola che le parlavano delle loro tenere pene, del sesso furtivo in discoteca, e della prossima gita scolastica, e dei perizoma e dei tanga che avrebbero indossato per gli amplessi nei corridoi degli alberghi, approfittando del sonno dei professori o del loro essere a loro volta impegnati a far sesso: specie quel professore di filosofia che piaceva a tutte e quella professoressa di fisica che sembrava così fredda, ma si scioglieva quando il professore le parlava, e magari distrattamente le sfiorava una mano. Ora ricordava benissimo; anche lei doveva partire per la gita scolastica, ma non aveva preparato indumenti sexy: sempre quel pigiama di felpa rosa con su ricamato un cuore trafitto, e sempre quel libro con le poesie di Neruda.

Poi ricordava quel traversare la strada di fretta, sventata e sicura come era lei. E quell’auto che le piombava addosso, e poi più nulla, nulla su questa terra. Lei aveva accettato la morte, l’aveva subita come si subisce una fine di tutto. Da lassù si vedeva in quel letto di ospedale, con quei medici decisi a darla per viva. E suo padre: suo padre che non la lasciava mai sola, che parlava al suo corpo di morta come si parla ad una figlia molto malata, per farle coraggio, per farsi coraggio. Dio mio, quanto tempo era passato, per quelli che la volevano viva; i medici che si sentivano guaritori, quelle infermiere che la lavavano e scuotevano la testa e dicevano sottovoce, per non farsi sentire dai medici, che quella ragazza era morta.

Ora, dal Paradiso, ricordava le voci di professori illustri, di cattedratici insulsi che discettavano di morte cerebrale e di morte cardiaca; e uno diceva che se l’ago dell’elettrocardiogramma si spostava una volta al mese, la ragazza era viva. E un altro diceva che il cuore non significava nulla, quello che contava era il cervello; e se l’elettroencefalogramma non era piatto la ragazza era viva. Lei non avrebbe voluto tutto questo; lei voleva che smettessero di farle quegli esami inutili; ma loro non avrebbero capito: è già cosi difficile intendere la voce dei vivi, figurarsi quella dei morti. Meglio dunque tacere, tanto quel corpo non soffriva, solo le spiaceva ogni tanto che la spogliassero nuda per averla meglio a portata di mano. Fu allora che decise di parlare con suo padre; mentre la vegliava, attento a che la flebo continuasse a zampillare acqua viva nelle sue vene di morta, attento a che le coperte non scivolassero da quel corpo sempre più sottile, un foglio di carta diafana. Lei cominciò a dirgli che era morta, anche se vedeva tutto, dalla sua morte.

Ed a dirgli che era serena, che era felice, e che anche lui doveva essere sereno a saperla serena. All’inizio il padre non si rendeva conto di quelle parole; pensava di stare sognando, e chi sogna non si rassegna. Poi lentamente il padre capì: capì la dimensione che li separava, capì che sua figlia era morta. E volle dirlo ai medici, perché staccassero quei fili aggrovigliati come serpenti, perché smettessero di nutrire quel corpo da cui l’anima si era liberata. Ma la scienza, non essendo coscienza, non accettava ragioni. Ora ne facevano quasi una questione di principio, quasi un orrendo braccio di ferro. E quando il padre insisteva a dire che sua figlia era morta, e che era lei che glielo diceva, scuotevano il capo come ad un padre fatto pazzo dal troppo dolore.

Poi i giornali, e le foto: le foto di quando era ragazza e sorrideva, e nessuna foto di come era diventata ora, ora che era morta ma viva o viva ma morta. Lei si guardava da lassù, e provava tenerezza ed orrore per quel volto che non era più volto, per quella maschera inventata dal carnevale della scienza senza coscienza e della religione non religiosa. E si chiedeva come facesse suo padre a sopportare ogni giorno di vedere quel volto non volto: e nei suoi colloqui muti con il padre, lui le diceva che no, non tollerava quella visione orrenda; ma non voleva lasciarla sola, lasciarla a quella gente che scommetteva e giocava sul suo corpo disfatto. Vorrei adagiarti in una bara, le diceva il padre, e coprirti il volto con un velo, e sentire il rumore liberatore della fiamma ossidrica che scioglie lo zinco per farne sigillo. Poi, quel giorno, il padre approfittò dell’assenza di medici ed infermieri: aveva portato un martello leggero ed un chiodo dorato.. E le infisse il chiodo nel cuore fino in fondo, uccise per sempre la vita che da tempo non era più vita. Lei, da lassù, adesso gli sorrideva; e guardava con tenerezza quel fiore che le era spuntato sul petto.