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Progetto Orvieto: due o tre cose che so di lui. E qualcos'altro

mercoledì 6 agosto 2014
di Franco Raimondo Barbabella
Progetto Orvieto: due o tre cose che so di lui. E qualcos'altro

Avviso ai vari ed eventuali lettori. Vedo che si torna a parlare di “Progetto Orvieto”. Vorrei dare per questo un piccolo contributo alla sua conoscenza, con l’occhio di oggi e rivolto a chi alla sua conoscenza voglia avvicinarsi sul serio, senza pregiudizi. Perciò mi si permetta: astenersi perditempo, saccenti e denigratori di professione. La tentazione potrebbe essere eccessiva.

Riproporre oggi la filosofia del Progetto Orvieto, e con essa il metodo di lavoro, la logica progettuale e i temi di sviluppo che lo caratterizzarono, non significherebbe solo rendere giustizia ad una straordinaria stagione di innovazione strategica, di coraggio politico e di capacità realizzativa, ma riprendere le fila di un ragionamento sullo sviluppo necessario e possibile della città e del territorio oggi non meno indispensabile di ieri.
Che cosa fu infatti il Progetto Orvieto se non un ragionamento e un’idea operativa per uno sviluppo possibile? Bisogna dire anche uno sviluppo per uscire da una lunga fase di marginalità, dovuta non solo ad altri ma prima di tutto a noi stessi. Le potenzialità c’erano da tempo, ma fino ad allora nessuno le aveva individuate come un unicum, un insieme creativo e un tutto dinamico. Soprattutto, un insieme da mettere in sintonia con il mondo che stava cambiando.

Quale era l’idea? Si partiva dalla constatazione non solo che la città storica e le sue pendici fanno un tutt’uno, ma che questo unicum vive se vive il territorio nella sua dimensione comunale, comprensoriale e interregionale. Cioè se svolge un ruolo propositivo, da protagonista del suo stesso sviluppo. C’era stato il dibattito sul superamento del PRG Piccinato mediante la Variante Benevolo-Satolli, poi era esploso il problema della rupe e delle frane, che poteva essere, e nei fatti era, un possibile dramma. Con quella visione delle cose, le scelte di Piano Regolatore e il problema della rupe furono trasformati in occasione di rinascita, divennero un progetto di riallineamento strutturale alla modernità mediante la valorizzazione dell’antico, del patrimonio storico-culturale-ambientale.

Lo strumento principale fu la legge speciale (sull’esempio di Venezia, Siena e Matera), prima per la somma urgenza (le frane di Cannicella del 1977/78) e poi per interventi strutturali e globali, ottenuta insieme a Todi con il coinvolgimento attivo della Regione e l’unità delle forze politiche, e con il contributo determinante delle istituzioni europee (Consiglio d’Europa e Parlamento Europeo). I problemi di una piccola città (però gioiello di natura, storia e cultura universale) furono internazionalizzati e divennero progetto di sviluppo, dichiarato dal Consiglio d’Europa modello di salvaguardia e valorizzazione dei siti storici in Europa, presente alla mostra dell’UNESCO a Belgrado nel 1981 sui luoghi della cultura, imitato da altre città (ad es. il “Progetto Ascoli” di Ascoli Piceno).

È utile ricordare le linee di intervento fondamentali del Progetto: il sistema di mobilità alternativa, il parco archeologico anulare e il Fanum Voltumnae, il sistema museale, il circuito di Orvieto ipogea, il palazzo dei congressi, la rete infrastrutturale, il restauro del Mancinelli e la nuova stagione teatrale, il turismo e i suoi legami con la cultura, con i prodotti tipici e la qualità dell’offerta ricettiva ed enogastronomica, ecc. Appunto un progetto di sviluppo imperniato sulle risorse del territorio, per creare lavoro non più di ricasco, diretto e di prospettiva. Come si fa a dire oggi che i soldi che allora furono trovati, su diversi canali (ad es. i fondi FIO per il parcheggio di Orvieto Scalo) e non solo con le leggi speciali, furono solo una spesa e non un investimento produttivo, cioè generatore di futuro? La messa in sicurezza del masso tufaceo, il rifacimento delle reti fognante e idrica, il sistema di convogliamento delle acque chiare e nere per la loro depurazione, il sistema parcheggi-scale mobili-funicolare, il risanamento di monumenti e palazzi per la loro fruibilità e funzionalità, non sono forse un investimento produttivo? Non sono aumento di valore, anzi, di per sé valore aggiunto e base per la creazione di ulteriore valore aggiunto?

Certo, a tutto questo sarebbero dovute seguire gestioni coerenti, sistematiche e lungimiranti, e attività organizzate, pubbliche e private, capaci di trasformare le potenzialità in sistema funzionante. Il fatto che così non è stato, o non è stato per quanto e per come sarebbe stato possibile con quelle premesse, dovrebbe essere oggetto di una riflessione seria, che però a distanza di un quarto di secolo ancora non mi pare sia stata fatta. È comunque sbagliato scambiare gli effetti con le cause. Il fatto è che quella stagione, dopo un decennio di creatività e di direzione fortemente innovatrice, fu bruscamente interrotta e il clima progressivamente cambiò fino a giungere prima alla stasi e poi quasi alla rinuncia a guardare al futuro, che è il carattere degli ultimi dieci anni. Le conseguenze le stiamo ancora pagando, non solo sul piano finanziario, ma anche in termini di nuova marginalità, di occasioni perdute, di arretramento sociale e di clima politico litigioso.

L’ultima clamorosa controprova è stata la vicenda RpO, liquidata con la stessa logica che scattò quando ci si accorse che il Progetto Orvieto poteva dare i frutti che in nuce conteneva: quando un’idea dimostra di poter andare in porto, allora non ci si adopera per favorirne il successo, ma si fa ogni sforzo per fermarla. Si tratta davvero di qualcosa di straordinario, qualcosa che non ha riscontro, credo, in nessun’altra parte del globo terracqueo. Si pensi solo a questo: il socio unico di una Spa (il padrone della società) ostacola in tutti i modi il CdA da lui stesso nominato e così fa fallire il progetto di valorizzazione del bene di sua proprietà, da lui stesso approvato, non appena si accorge che questo potrebbe essere realizzato. Danno finanziario (lasciamo perdere danni di altro tipo) conseguente a otto anni di niente: non meno di sedici milioni. Io trovo incredibile non solo che una cosa del genere sia potuta accadere realmente, ma che di tutto si sia discettato (con un disprezzo per la conoscenza delle cose che meriterebbe uno studio a se stante) tranne che di questi aspetti, che con ogni evidenza sono il cuore non di un problema qualsiasi, ma delle dinamiche delle classi dirigenti e insieme degli orientamenti profondi della stessa città. Dopo averle viste e sentite di tutti i colori, oggi mi si lasci almeno lo stupore.

Il discorso sulle cause profonde di tutto ciò e in particolare sulle ragioni di quell’interruzione improvvisa dell’esperienza del Progetto Orvieto, nonché del permanere di logiche distruttive come quelle che ho descritto, non può essere sviluppato in modo compiuto in un intervento come questo, ma è certo che la città da allora ha perso progressivamente ruolo in Umbria, si è impoverita di servizi territoriali fondamentali ed è arretrata rispetto ai processi di internazionalizzazione che avevano preso slancio negli anni ottanta. La sfida dell’autonomia locale rispetto al centralismo regionale (così in effetti era stato vissuto e questo anche oggettivamente era il Progetto Orvieto nell’Umbria di allora) con questi passaggi si è trasformata inevitabilmente in rinuncia e in atteggiamenti di accettazione di un ruolo marginale. Così, alle conseguenze dalla crisi generale si sono aggiunte quelle di una chiusura e di un avvitamento su se stessi dei soggetti e delle istituzioni locali.

È da questa condizione che ora bisognerà uscire, con decisione, lungimiranza, e il più rapidamente possibile. Per questo sarebbe utile riprendere il modo di ragionare che fu del Progetto Orvieto, sulla città e sul territorio. Oggi come ieri le parole chiave non potranno che essere di nuovo vision e progetto, autonomia territoriale e spinta all’innovazione. E oggi più di ieri le risorse di riferimento non potranno che essere la cultura, l’ambiente, il turismo, la qualità dei prodotti, la cura delle competenze, lo sviluppo delle infrastrutture moderne. Dobbiamo collaborare e fare sinergia con altre realtà e con i diversi livelli istituzionali, ma dobbiamo essere noi che abbiamo le idee e la forza di proporle per farle diventare realtà. Occorre generare entrate. Occorre una svolta vera. Da qui si può ripartire per il lavoro e la qualità della vita, e per guardare con rinnovata fiducia al futuro.

Come ho iniziato, così concludo. Adesso avviso ai governanti. In molti nell’ultimo quarto di secolo è venuta a più riprese la tentazione di parlare del Progetto Orvieto, ma mai quella di riprenderne metodo e obiettivi. Perché è roba faticosa, richiede scelte toste, coraggiose e coerenti, impegno costante, battaglie rischiose. Se non ce se la sente, meglio astenersi, sapendo però che potrebbe andare a finire anche peggio: in fondo, la tentazione di seguire la regola andreottiana “l’arte di tirare a campare è meglio di tirare le cuoia” è stata sempre molto forte anche dalle nostre parti, e il fatto che normalmente produce più prima che poi esiti deleteri per tutti non ha scoraggiato più di tanto. Però questa volta i nostri amministratori, almeno stando alle dichiarazioni, sembra che vogliano fare sul serio, cioè riprendere un modo di governare fondato su una politica, su un senso complessivo delle cose, su un progettare che è anche un agire concreto e insieme ambizioso e coerente. Speriamo che sia davvero così. D’altronde non hanno alternative: o così o pomì. Auguri.