opinioni

La lenta agonia del tribunale

mercoledì 16 ottobre 2013
di Aurora Cantini
La lenta agonia del tribunale

Assistito costantemente da coloro che gli hanno voluto bene, dandosi il cambio per non lasciarlo mai solo, anch'io, in questi ultimi giorni, ho voluto rendere omaggio all'illustre Infermo. La scelta della tempistica non è stata casuale. Volevo infatti esserci quando gli altri, per sacrosante ragioni, non potevano essere presenti; volevo esserci per stare con lui, da sola, nel silenzio delle sue stanze, immersa nella giusta atmosfera stimolante pensieri e riflessioni. Per recuperare, insomma, un momento di intimo raccoglimento, come quando si sente quel bisogno improvviso di entrare in chiesa,fuori dalla ufficialità delle funzioni religiose. Già osservandolo dall'esterno, il suo aspetto mi è sembrato più dimesso. Portoni chiusi, molti cartelli di protesta spariti; soltanto alcuni, quelli più robusti, resistono ancora come vedette, pervicacemente arroccate sul terrazzo centrale.

Anche i fantasmi a guardia del presidio hanno abbandonato il campo, lasciandovi soltanto un misero ectoplasma nero, unico a penzolare dal filo e presagio di una fine imminente Entrando poi da un accesso laterale, quasi fossi un ladro, ho percepito immediatamente il repentino cambiamento avvenuto all'interno. Il Palazzo nuovo, sede delle Cancellerie civili, chiuso con porta sbarrata, simile alla inferriata di una prigione. Attraversando l'androne del Palazzo vecchio, ormai ridotto a deposito provvisorio di merci in partenza, e salendo le scale fino alla sommità, ho trovato porte serrate dappertutto; chiuso l'accesso al "cuore del Tribunale", all'Ufficio della Procura e a quello del Casellario Giudiziale.

Fogli divelti dalla bacheche, annunci ripiegati su se stessi, locandine cascanti come salici piangenti. Nastri adesivi alle porte interne per impedire l'accesso "agli estranei" durante le operazioni di trasloco dei faldoni. Tutto regolare, per carità, ma posso sentirmi come un'estranea in quell'ambiente che,fino all'altro giorno, era il mio ambiente, era il nostro ambiente di lavoro? Un tristissimo pensiero mi è passato per la mente mescolato alla strana sensazione che ho provato nell'aggirarmi in un Palazzo di Giustizia completamente deserto, dove il solo rumore che percepivo era quello dei miei passi. Varcata la Sala delle Udienze, unico luogo che ci è permesso ancora di frequentare, avvolta da un silenzio surreale, ho capito che lì, proprio lì, giaceva il "Moribondo".

Seduta al suo capezzale ad osservarlo,h o notato come il suo "look" sia maledettamente peggiorato. Esangue e spossato, devastato da profondi squarci sul corpo. Ma, sia chiaro, non è una malattia incurabile che lo ha ridotto in quello stato, lo sappiamo bene tutti! Sono le ferite inferte, a più riprese, dalle mazzate di normative raffazzonate, partorite dai nostri "Grandi Cervelli" annidati nei Soliti Palazzi che, come un rullo compressore, lo hanno travolto e debilitato, sconvolgendo la vita della comunità che intorno a Lui gravitava e traeva linfa vitale. Così la sua agonia prosegue inesorabile e il senso dell'abbandono sta per prendere il sopravvento.
Ormai tutto sembra detto, compiuto, irrimediabilmente deciso.

Ma possiamo, noi Orvietani tutti, fare ancora qualcosa per rivitalizzare l'Infermo, per infondergli quell'anelito di vita che, come per miracolo, lo possa risvegliare dal coma vegetativo indotto forzatamente dall'Alto e che lo sta conducendo lentamente verso la Fine?
Francamente non lo so, ma non dobbiamo rassegnarci, non dobbiamo perdere la speranza, anche la più flebile, che forse qualcosa di nuovo e di positivo potrà ancora germogliare da questo campo di tristezza e desolazione.