opinioni

Quando suona una campana

venerdì 17 dicembre 2010
di Fausto Cerulli

Quando suona la campana, mi viene da pensare, non bisogna chiedersi per chi suona, ma contro chi. E la campana suona contro di me, contro di noi, quando segna la morte di un giovane. Non mi va di discutere sulla solita questione dei criteri della giustizia divina, o del fatto che muore giovane chi è caro al cielo. Quello che voglio dire è che la morte di un giovane è sempre una malefatta, dal punto di vista oggettivo.

Ed io che giovane non sono mi trovo a pretendere che Dio, o chi per lui, voglia operare una sorta di gerarchia geriatrica, facendo morire chi ha vissuto a lungo e lasciano vivere chi ha la vita da vivere. Si allunga la lista dei giovani che mi furono cari, e che mi sono morti contro.

Penso a Francesco, a Gianna, anche a Carlotta che era giovane di dolce fragilità. Ora mi tocca da vicino la morte di Marco Prosperini. Una morte assurda, incredibile, (e trovo lodevole la tempestività con cui la Procura della Repubblica ha richiesto le carte agli ospedali, sospettando ipotesi di mala sanità), ma soprattutto una morte beffarda.

Conoscevo Marco, quel suo volto di eterno fanciullo saggio, sotto i capelli ricci, e conoscevo la sua risata dilagante, coinvolgente. Tirava di scherma, quando lo conobbi ragazzo, ed essendo mancino aveva buon gioco. Ricordo la stanza in cui tra complicati strumenti studiava da architetto, e studiava senza fatica come chi studia con amore, A lui raccontavo storie vere, non quelle inventate che dicevo a Francesco: ma negli occhi lo stesso stupore, la stessa fiducia. Mi chiamava zio, anche se gli ero parente alla lontana, e per via indiretta: credo che mi volesse bene, come io a lui.

Lo vedevo poco, negli ultimi tempi, tutto preso come era dal suo progetto, umano prima che professionale, di riportare l'Hotel Posta al suo antico splendore liberty. L'ultima volta mi ha sfiorato con la sua auto in un vicolo stretto, e dal finestrino spalancato mi ha detto con il suo modo spavaldo e gentile: "zio, se non ti scansi ti ammazzo", ed invece è stato ammazzato lui, dalla mala sanità o dalla malasorte o semplicemente perché era venuta la sua ora. La sua ora; che assurda tragica espressione, quasi che uno potesse scegliere un'ora e dire a se stesso, magari inconsciamente, questa è la mia ora, guai a chi la tocca, decido io.

Le prime notizie parlavano di suicidio: neppure per un attimo ho creduto ad una tale ipotesi, io che pure sono pratico di suicidi riusciti o tentati. Marco era l'immagine della vita che vuole vivere, Marco era la fretta, la fantasia, l'immaginazione, l'allegria matura e sentita. Io so che molti ora lo piangono, molti non sanno darsi pace di quella pace in cui lui dovrebbe riposare in pace.

Io sento una specie di rabbia, sarei capace di maltrattare anche il mio amico Vescovo se volesse discettare con me dei disegni della Provvidenza, che non dobbiamo criticare. Sono leggermente stanco di questo Dio che vede e provvede: qualche volta lasci noi, a provvedere. E lo dico in nome del silenzio sbalordito della madre di Marco, del suo non poter capire, e delle sue mute domande.

Cristo, quanto mi ferisce feroce, questa morte inquietante e banale. E mi viene in mente, a me che non amo le citazioni, un pensiero di Peter Handke: "Una idea della morte; una grossa mela che tieni per il picciolo, silenziosamente, a lungo; finché non vieni a sapere della legge di gravità".

Pensando a Marco