opinioni

La storia per sentito dire di Claudio Lattanzi e la storia recente della destra e della sinistra orvietane

martedì 19 ottobre 2010
di Valentino Filippetti

La nuova avventura editoriale di Claudio Lattanzi gli offrirà sicuramente belle soddisfazioni. L'argomento scelto "tira"; il genere va per la maggiore e la "narrazione" è adatta al suo pubblico più affezionato.

Resterà deluso chi invece è alla ricerca del santa sanctorum della sinistra, della notizia clamorosa, dello scoop definitivo. Il lettore troverà solo un compiendo delle tante notizie, comparse sulla stampa negli ultimi 30 anni, relative alle presunte malefatte del centrosinistra: citazioni tratte dal libro di Giulietti, qualche visura camerale e, in prevalenza, badilate di "sentito dire" offerte da qualche collaboratore a progetto.

Al tempo stesso, in ossequio al giornalismo militante di scuola feltriana, Lattanzi rilancia il famoso teorema della "tela di ragno", ovvero del fantomatico e ipotetico sistema di potere rosso trasformato in regime totalitario e oppressivo dai comunisti trinariciuti.

Peccato che anche questo è copiato, o meglio riusato.

Questo teorema farà anche comodo - semplifica una storia complessa e indica un colpevole - ma è fiacco e spiega poco. E il primo a non crederci troppo è lo stesso autore. Proprio in apertura del volume, infatti, egli racconta del presunto accordo siglato tra Brega e Concina, destinato a far saltare il risultato, favorevole al centrosinistra, delle elezioni comunali del 2009. Una complicità che la "tela di ragno" non avrebbe mai consentito.

L'autore si guarda bene dal contestualizzare le cose che dice, seleziona tendenziosamente la "rassegna stampa" e soprattutto omette aspetti importanti.
La verità è che non c'è stato nessun "grande fratello". La nostra città, al pari di altre, ha subito un processo di "meridionalizzazione" che innanzi tutto ha riguardato i suoi gruppi dirigenti. Il punto di svolta coincide con la famosa "giunta degli uomini e delle donne", quando nel pieno della bufera degli inizi anni '90, si pensò bene di abbandonare la politica per rifugiarsi nella mediazione diretta tra potere e interessi.
Si trattò di una "svolta a destra" che prima estromise dal governo le culture progressiste meno disposte al compromesso per poi sperimentare una lunga stagione di allegro disimpegno.

L'hardware del mattone sostituì il software del "Progetto Orvieto" e la cultura, da risorsa per lo sviluppo, divenne il circenses, buono a soddisfare le pulsioni scioviniste di una piccola borghesia parassitaria.
La rinuncia a trasformare il San Francesco nel grande albergo di Orvieto, funzionale alle esigenze di un moderno Palazzo dei Congressi, può essere eletto ad "evento-simbolo" di una stagione senz'anima che, equivocando l'ecumenismo un tempo così di moda, rese opaco il progetto e non identificabili i soggetti dell'azione politica. Fu, quella dell'albergo, una scelta compiuta tra grandi contrasti, comprensiva di una duplice occupazione (in notturna) della sala consiliare del Comune di Orvieto.

Nell'equivoco di un governo delle oligarchie più o meno vocate alle rendite, nell'ecumenismo decadente e nel prevalere di una politica dei tempi corti, stanno le radici della sconfitta della sinistra, incubata a lungo e resa manifesta da una parabola discendente che passa dal 48% del PCI del 1990, al 42% del PDS del 1995 al 30% dei DS nel 1999 (con PRC ferma al palo).
Tuttavia, in questo dolce naufragar, la sinistra e le forze politiche si perdono in un mare piuttosto frequentato, in cui compiaciuti galleggiano falsi ingegneri, notai levantini, medici barocchi e commercialisti esperti d'occultismo.

La storia recente della città, fuori di metafora, racconta della crisi di una classe dirigente nella sua totalità. Crisi alla quale - così come bene illustrato dalle recentissime vicende municipali - la destra partecipa con incredibile talento, ansiosa di bruciare i tempi.
Già altre volte ho invitato a riflettere meglio sull'economia politica dei vari piani regolatori. Si scoprirebbe così che le famigerate cooperative rosse non hanno avuto un metro quadro di terreno fabbricabile. E mentre ci si accapigliava sul tanto vituperato centro commerciale della Coop sull'Amerina (ancora sulla carta) altri, in silenzio, hanno da tempo inaugurato i loro lucenti supermercati.

Non c'è alcuna "tela di ragno" ma un lungo ciclo politico in cui la sinistra ha commesso errori di strategia e fatto scelte sbagliate che hanno comportato la perdita del Comune di Orvieto, e di tutti i punti di potere amministrativo extracomunale che gli orvietani avevano conquistato nel tempo. Di questo si tratta, e siamo ben lontani dal teorema di Lattanzi che, per fare del giornalismo militante di destra, indossa i panni di un epigono del feltrismo provinciale.

Il punto di fondo è che mentre la sinistra organizzava la società - la società che c'era, quella agricola e degli artigiani poveri, non degli imprenditori schumpeterini sognati di notte da Lattanzi -; mentre la sinistra allestiva servizi per la salute, l'educazione, la cultura; mentre la sinistra accompagnava l'ascesa delle masse popolari, dall'altra parte non c'era nulla. Non un'elaborazione culturale, non uno sforzo progettuale, non un pensiero degno di questo nome. Questo nulla si è mantenuto più o meno tale e quale sino ai giorni nostri e, incredibilmente, si è voluto applicare pervicacemente al governo della città. Tant'è, che l'unica proposta del centrodestra è quella di piallare tutto e compiacersi del deserto che essi stessi hanno contributo a realizzare.

Alla sinistra tocca, in ogni caso, fare i conti seriamente con la sua storia recente, mettendo da parte le dispute personali o di corrente, per capire dove e quando è finita "la spinta propulsiva" e come al tempo del World Class Manufactoring si può iniziare una nuova storia di crescita e di sviluppo per Orvieto.