opinioni

A fianco del Duomo

venerdì 17 settembre 2010
di Mario Tiberi

Da quando ho intrapreso il cammino della mia personale presenza sulla scena della vita pubblica orvietana, sto vieppiù riscoprendo il piacere e il desiderio interiore di ricercare amicizie fedeli con i vicoli, le vie, le piazze e i monumenti della nostra magica città.


Loro stanno lì da secoli e non attendono altro che i discendenti degli Etruschi, dei Romani, dei Rinascimentali, degli Illuministi e dei Romantici tendano ad essi la mano per una stretta robusta, fortificante e riconciliativa.
E sì riconciliativa, perché ormai da troppo tempo gli orvietani sembrano aver perso il legame profondo che dovrebbe unirli alle icone-simbolo del masso tufaceo e, opino, sia giunto il pressante momento di ristabilire, solido e duraturo, il vincolo di collegamento affettivo e intellettuale con le strutture fisiche e metafisiche che, in città, ci avvolgono e ci connotano.


Quasi ogni sera, finché il clima lo consentirà, vado a sedermi sulle gradinate ai fianchi del Duomo e, da quella visuale, ricevo in dono dalla Divina Provvidenza la sacra occasione di poter ammirare, incantato, il punto di congiunzione tra l'opera di Dio, il cielo e le stelle, e l'opera dell'Uomo, le guglie della Basilica Cattedrale e i tetti dei palazzi che la circondano.

L'altro pomeriggio, sul tardi, ho avvertito l'ardire di andarmi a posizionare sui sedili di basalto e travertino davanti alla facciata che, imponente, sovrastava la mia e le altrui industriosità di formichine alla ricerca di cibo per le nostre anime. Il sole, al suo calare, inondava di raggi, provenienti da via Maitani, le migliaia e migliaia di pietruzze di mosaico che, nel rifrangere la sua luce, si illuminavano così tanto da rapirmi fino a catapultarmi, con volo pindarico, nel porticciolo di Santa Lucia, a Mergellina, quasi a riprodurre il luccichio sfavillante del mare nelle notti di plenilunio.


Poi, d'un tratto, dalla facciata si è come materializzato un dito indice ammonente che mi ha posto con le spalle al muro mentre, vibrando, così mi rimproverava: "Cosa, tu, hai fatto e stai facendo per me?...; ed essendo il Duomo e Orvieto immedesimati della stessa sostanza, è come se fosse stata la città intera a pormi la domanda secca e imperiosa sopra espressa.
Mi sono sentito in colpa e in difetto di debito per ciò che avrei potuto dare e non ho dato, per ciò che avrei dovuto offrire e non ho offerto. Come un bambino mortificato, quando è colto a gironzolare attorno al barattolo della marmellata, mogio mogio me ne sono ritornato sui gradini di fianco al Duomo.
In contemporanea passava di lì Valeriano Venturi, da sempre amico di famiglia e mio personale, e con lui ho potuto liberarmi di parte della mia tristezza e del mio senso di colpa che, in confidenza, mi ha detto essere anche il suo.


La nostra Orvieto chiama i suoi figli a raccolta nel momento in cui le sue ferite si fanno più dolenti e, a codesta vocazione, nessuno può restare insensibile ed anzi ad ognuno è affidato un compito, alto o meno che sia. Per quel che mi riguarda, proseguirò il mio impegno civico nel partito dei democratici orvietani, voce isolata ma determinata e caparbia, e ancor di più nel COVIP delle cui intelligenze e capacità, quando poi sarà ulteriormente arricchito dall'apporto qualificato di Donne eccellenti, solo gli stolti potranno pensare di farne a meno.
A fianco del Duomo, sottobraccio o per mano lungo la via della speranza fiduciosa che risorgeremo!.