opinioni

Temporale con il senatore

mercoledì 26 maggio 2010
di Nello Riscaldati

In queste piovigginose giornate di maggio, là dove i fermenti politici, i "quo usque tandem", gli "io sono più bravo di te" si rincorrono a mitraglia nella convinzione che chi strilla di più alla fine sarà il vincitore, è quasi normale, o quanto meno riposante, che il pensiero di chi non è coinvolto in questi fuochi di bordata anche se in fondo si tratta quasi sempre di guerre pacioccone, se ne vada zitto zitto a frugare negli scatoloni del suo passato alla ricerca di un qualche ricordo, anche piccolo e futile, sul quale poter poggiare la testa e poi magari poterlo accarezzare prima di addormentarsi.

E cosi, come primo estratto, da un vecchio baule viene su questo quesito: erano uguali, migliori o peggiori degli attuali i politici orvietani del passato? E, soprattutto, la comunità orvietana ha conservato memoria di loro?
Quanti sono i concittadini che rammentano ancora i proff. Manciati, Carletti, Spadoni, Guerrieri, l'avv. Romoli e il sindacalista Zanetti, e, a sinistra, i Grassi, gli Stella, i Basili, i Petrangeli, e poi Meacci, Bruno, tutti parlamentari, ed altri che non ricordo neanche io?
E poi quelli ancora tra noi, come Zambrino, l'Anna Petrangeli, l'on. Bartolini, Materazzo, Formiconi, etc!

Forse qualcuno si ricorda di qualcuno ma, come dice il poeta, prima o poi "involve tutte cose l'obblio nella sua notte", e allora credo sia quasi doveroso adoperarsi per strappare qualcosa, fosse anche un semplice lembo, dalle mani dell'oblio medesimo che, come tale, non porta rispetto a nessuno.

Convinto di questo io ci provo con un piccolo ricordo, una piccola storia che forse non interesserà nessuno ma che è stata vissuta da chi l'ha vissuta come un piccolo dramma e della quale, finora, per reciproca e solenne promessa tra i protagonisti, non ne era mai stata fatta parola alcuna.


La mia consuetudine con il senatore Romolo Tiberi fu soprattutto romana. Lui senatore della Repubblica, a un'ora e mezza da Roma e perciò pendolare, io docente alla "Sapienza", a un'ora e mezza da Roma e perciò pendolare anch'io.
Di solito c'incontravamo nei pressi della stazione Termini o sul treno per Bologna delle 19.20 e che arrivava ad Orvieto alle 20.45 circa. Giusto giusto per cena.

Era una sera di novembre di uno dei primi anni '70, una sera di quel novembre che dovrebbe lacrimare malinconie tra repentini crepuscoli e profondissimi sconfinati silenzi. Ma quel giorno la sera era cominciata già nel pomeriggio con un cielo piombo scuro, lampeggiante e borbottante e che ci avvisava di un temporale fuori stagione ancora lontano ma che si stava avvicinando.
Mentre scalavo in solitaria Via IV Novembre per raggiungere Via Nazionale, Piazza Esedra e la Stazione, a circa metà della suddetta Via sentii dietro di me la voce del senatore.
-Dove vai, dove non vai, come mai, aspettami, andiamo insieme...!-

Insomma da un discorso confuso emerse che eravamo entrambi a piedi e alla ricerca di una fermata del 64, l'auto che, come tutti sanno, collega S. Pietro alla Stazione Termini. Nessuno chiese all'altro come mai fosse lì a quell'ora.

Ora, voi che leggete, dovete sapere che Via Nazionale è lunga ben oltre un chilometro ed è tutta in lieve salita per chi viene da Via del Corso o da Piazza del Gesù. Noi comunque, soddisfatti tutti e due di aver trovato compagnia, cominciammo a salire verso l'Esedra alla ricerca della prima fermata dell'auto suddetta mentre in cielo i lampi si facevano più frequenti ed i tuoni più rumorosi.
Camminando non parlammo di politica anche perché non lo facevamo mai, bensì di cose che ci riguardavano o che, al massimo potevano riguardare la città di Orvieto. In passato abbiamo anche sconfinato in argomenti seri come i rapporti tra onestà e corruzione anche perché una volta, mi ricordo, sfoderai il famoso interrogativo che recita: "Che merito c'è ad essere onesti se nessuno ti induce in tentazione?", interrogativo oggi, ma un pochino anche in quegli anni, enormemente inerente alla politica ed impastato totalmente di politica.

Intanto si avvertiva intorno un'aria carica tesa e bassa come un respiro trattenuto e noi, distratti dal ragionare del più e del meno, non ci rendemmo conto di che straccio di temporale stesse per esplodere addosso a due poveri tapini, che stavamo andando in giro di notte, lontani da casa, ignari del pericolo e senza avere in mano nemmeno il manico di un ombrello.

Ma la cosa curiosa, che però avvertimmo subito dopo come drammatica, fu che, percorso qualche centinaio di metri, vedemmo il 64 fermarsi alla nostra altezza. Finalmente! Finalmente sì, solo che la fermata era dall'altra parte della strada. Ci rendemmo solo allora conto che stavamo salendo da sinistra e cioè contromano in ordine alle soste dell'auto che viaggiava verso la Stazione.

-Che cretini!- ci dicemmo o, almeno sicuramente lo pensammo, -adesso dobbiamo per forza attraversare la strada!-

Azzardai io qualche passo verso l'altra sponda con Tiberi dietro di me ma, percorsi pochi metri, un fulmine esplose su verso l'Esedra.
Fu un lampo bluastro e arancione seguito immediatamente da un tuono formidabile che fece rintronare piazza e palazzi e il cui rombo si propagò di potenza lungo Via Nazionale finché un altro scoppio più lontano, verso Piazza Navona, coprì gli ultimi strascichi di tutto quel fracasso.
La conseguenza fu che Via Nazionale fu avvolta dal buio per alcuni secondi. Una scena da incubo e difficile da descrivere.
Dio volle che le auto, fitte come la pioggia e con i fari che ti bucavano gli occhi, si accorgessero di noi che stavamo ripiegando sul marciapiede sbagliato e ci risparmiassero evitandoci. Comunque quella sera nei nostri riguardi il destino fu sicuramente cinico e beffardo al punto che, subito dopo il fulmine, cominciò a versarci addosso secchiate d'acqua da un cielo che sembrava una ragnatela di lampi colorati sopra una fontana sfondata.
Dopo tre secondi eravamo fradici zuppi. I negozi tutti chiusi. Via Nazionale intasata da macchine che strombettavano e schizzavano acqua sporca, una grossa insegna al neon pendolava accendendosi e spegnendosi ad intervalli irregolari, di passanti nemmeno l'ombra! Eravamo solo noi! "Rari nantes in gurgite vasto", lungo una strada bagnata, scintillante di fari tremolanti e che non finiva mai. Sicuramente quella sera eravamo due persone che intralciavano, e non poco, perfino se stesse.
Credemmo di trovare la parvenza di un riparo sotto lo stipite di un negozio chiuso. Ma la pioggia ondulata dal vento ci prese addirittura a schiaffi. Decidemmo allora di andare avanti e continuammo a salire.

E fu poco prima dell'incrocio con Via delle Quattro Fontane che ci parve di vedere un ampio ombrello nero appoggiato allo stipite di un negozio chiuso.
Cominciò tra noi una discussione surreale. E forse non usammo le parole che di seguito riporto ma le medesime conservano però tutto il succo di quelle argomentazioni. Tiberi sosteneva insomma che prendere quell'ombrello sarebbe stato una specie di furto.

-Vedi, pur se questa è la prova visibile della Provvidenza Divina, noi quest'ombrello non possiamo prenderlo perché non è nostro!Sarebbe come rubarlo!- ansimò il senatore.

Mi venne allora in mente come, nelle diatribe del ragionamento prevalga spesso il sofisma.

-Sì, credo anch'io che sia una manifestazione della Provvidenza, ma è a noi, che ora ne abbiamo un gran bisogno, che s'è manifestata, proprio come, in Manzoni, il barcaiolo dell'Adda quando Renzo, fuggiasco, si affaccia sulle rive del fiume. E dunque ne concludo che l'ombrello è nostro almeno fino alla Stazione!-

Il senatore Tiberi, visto anche il tempo, non se la sentì di addurre altri argomenti a sostegno della sua tesi e quindi l'ombrello fu preso ed aperto. E così proseguimmo nella marcia anche se quell'attrezzo sotto la spinta e il risucchio del vento ogni tanto si rivoltava, si riempiva d'acqua e ce la rovesciava addosso.

Arrivammo alla Stazione poco dopo le 22. Avevamo sostato qualche minuto sotto i portici dell'Esedra sperando che il temporale si quietasse. Ma pioveva ancora alla grande e non s'avvertiva affatto la prossimità di una fine.
A quell'ora l'unico treno che avevamo a disposizione era quello delle 22:38 con destinazione finale Stoccarda e che arrivava ad Orvieto verso la mezzanotte.

Prima di entrare in Stazione appoggiammo l'ombrello in un angolo, poi ci allontanammo verso l'ingresso.

-Aspetta- mi avvertì il senatore prima di entrare -guarda!-

E vedemmo una piccola ombra nera infagottata, di certo una donna, che stava appunto provando ad aprire l'ombrello che fino a poco prima ci aveva fatto compagnia. Ci riuscì dopo vari tentativi e, fatto che l'ebbe, si avviò tranquilla per i fatti suoi.

-E cosi, ora la Provvidenza ha aiutato quella donna.-

-E pertanto noi, come ti dicevo, non abbiamo rubato niente, abbiamo solamente preso e restituito.-

Il senatore, data la sua carica, poteva viaggiare gratis in prima classe, ma volle fare il viaggio insieme a me. Zuppi fino al midollo salimmo in seconda. Vagone strapieno, corridoio ingombro di bagagli di emigranti diretti in Svizzera o in Germania. Tiberi stremato si sedette sul seggiolino del controllore, l'unico posto rimasto libero.

-A Orte ti do il cambio! Avvisami quando arriviamo.-

Forse aveva paura di addormentarsi.

Ma poco prima della partenza si aprì lo sportello e salì una donna trafelata con un bimbo in braccio. L'aiutammo a salire, il senatore si alzò e le cedette il posto.

Questo atto di cortesia che lì per lì mi sembrò ovvio, più tardi mi costrinse a riflettere. Credo che i parlamentari attuali, con portaborse, body-guard ed auto blù dovrebbero venire a conoscenza di questi piccoli, ma immensi, episodi di cortesia e di compassione. Forse però sono argomenti più grandi di molti di loro, specie di quelli che vanno alla perenne ricerca di telecamere e di microfoni per ribadire il loro punto di vista ritenuto tanto importante per la vita della nazione e con la speranza di ottenere qualche secondo di visibilità nei Tg della sera.

Arrivammo alla Stazione di Orvieto a mezzanotte circa. Piovigginava, solo qualche lampo silenzioso sulle colline del Peglia. I viaggiatori, discesero rapidi dal treno. Nessuno aveva l'ombrello, qualcuno si riparò con il giornale che aveva in mano. Non pochi erano bagnati come noi. Tutti si allontanarono in fretta.
Non ricordo se Tiberi avesse la macchina o avesse trovato un passaggio. Ci salutammo in Piazza della Stazione, io inforcai la mia Lambretta 150 e salìi verso casa mia in Via della Cava.

Prima di lasciarci giurammo solennemente di non far parola a nessuno circa quella vicenda, perché forse non saremmo stati neanche creduti e, se creduti, saremmo stati abbondantemente presi in giro.
Ma oggi, a quaranta anni di distanza, ritengo che non ci sia stato nulla di male ad averla raccontata.
In fondo è la breve storia e disavventura di due distratti che cercavano la fermata dell'auto dal lato sbagliato, sotto un temporale romano e, con un ombrello disastrato che la Provvidenza o la fortuna o il caso aveva messo a loro disposizione come unica difesa contro le intemperie. Càpita! Ma tutto sommato poteva andare anche peggio!

E forse abbiamo, almeno in parte, anche risposto al quesito più sopra formulato circa le qualità dei politici del passato e quelli del presente. Naturalmente di alcuni, solamente di alcuni.