opinioni

Idee per uscire dalla crisi

lunedì 21 dicembre 2009
di Leonardo Riscaldati

Viviamo in tempi difficili, questo lo sappiamo bene. Ma è ancor più vero che viviamo in tempi di grande cambiamento. Non sono solo chiacchiere da circolo culturale. E proprio così. È un discorso maledettamente concreto. Non so quanto effettivamente ci si renda conto di quello che sta accadendo, ma il treno sta passando ora e bisogna iniziare a capire come salirci, perché nel resto del mondo già lo stanno facendo, e i posti liberi non sono infiniti.

Come sempre, proviamo ad andare con ordine.

L'economia mondiale sta cambiando. Cambiano i mercati, i modi di fare business, gli strumenti e la cultura necessari per riuscire a farlo. Non stiamo vivendo una semplice crisi, ma una vera e propria discontinuità strutturale.

Lo scenario è contraddittorio, a volte schizofrenico. Se infatti è vero che soprattutto grazie alle nuove tecnologie le opportunità di fare business si sono moltiplicate e si sono aperti nuovi mercati, è altrettanto vero che la conseguenza di tutto ciò è stata anche quella di regalare spazio ad un numero crescente di concorrenti, spesso a livello internazionale, che appaiono sempre più competenti, professionali, organizzati e capaci di utilizzare internet. La naturale conseguenza di tutto ciò è che è divenuta e diventerà sempre più complessa una comunicazione ed un'attività commerciale efficace con il proprio mercato di riferimento, per convincerlo ad acquistare i propri prodotti o servizi. Con un livello di competizione che in molti settori da locale è diventato mondiale, non si può più sperare di fare business con un approccio tradizionale o, come anche a volte accade, amatoriale; le imprese, anche quelle di dimensioni minori e quelle più chiuse dal punto di vista culturale, dovranno per forza di cose rendersi conto che o cambieranno radicalmente approccio e strategia di business, o se la vedranno veramente brutta. Sintetizzando al massimo: è vero che ci sono molte più opportunità, ma anche che è molto più complicato raggiungere i propri obiettivi.

Le aziende attraversano un profondo momento di crisi, e probabilmente ci vorrà molto tempo per consentire loro di riassorbire (se poi ce la faranno), i posti di lavoro perduti. Il problema riguarda poi anche gli aspetti strutturali e logistici, quindi le incognite sono molte; in questo contesto aspettare che esse possano riassumere, insomma, il campa cavallo, rischia di portare a ben poco.

Del settore pubblico manco voglio parlare, si badi bene, non per idiosincrasia verso lo stesso o nei confronti dei suoi lavoratori, ma perché a livello generale esso è già intasato del suo e quindi non è lì che ci può essere sviluppo. La pubblica amministrazione deve essere ristrutturata, quello sì. Con lo scopo di aiutare il cittadino e l'impresa a vivere e lavorare meglio. Deve diventare un volano ed un propulsore dello sviluppo stesso. Il vero punto è questo.

Volendo paragonare la situazione dello scenario generale alle fasi della crescita dell'uomo, mi immagino che in questo momento stiamo passando dall'adolescenza alla maturità. Un momento della vita costellato di crisi e cambiamenti, e caratterizzato dalla necessità della ridefinizione del sé. Eccetera eccetera. Di fronte a una situazione come questa bisogna cambiare radicalmente approccio, cultura, mentalità. E soprattutto, vista la velocità del cambiamento, farlo in fretta.

Mi rivolgo soprattutto ai giovani, perché mi rendo ovviamente conto che è lì che concretamente può (soprattutto deve) avvenire il cambiamento.

Condizione necessaria: bisogna fare uno scatto in avanti, soprattutto a livello culturale. Il concetto centrale è questo: uscire da una visione paternalistica, e concedetemelo, assai anacronistica, del "dateci il lavoro", per sostituirla una volta per tutte con invece un più moderno (e più efficace) "creiamoci il lavoro". Questa è, a mio avviso, la questione più importante. La cosa dalla quale non si può più prescindere. Non si scappa. Bisogna guardare il mondo non più in modo statico, da semplici e passivi spettatori, aspettando la manna e piangendo se non arriva, ma bisogna capire cosa succede e soprattutto capire come si può dire la propria all'interno del sistema. Insomma, sviluppare un punto di vista pragmatico, sintetico e analitico al tempo stesso; bisogna imparare ad agire nel mondo. E non solo guardarlo, per commentarlo e troppo spesso criticarlo, dalla poltrona di casa. Troppo facile. E soprattutto assolutamente inutile.

Homo faber fortunae suae, quindi; mai come in questo periodo storico secondo me il motto è stato più attuale.

Ma quali sono gli strumenti di cui dotarsi a livello pratico per diventare operativi nel nuovo contesto? Molto semplicemente: sono gli strumenti della cosiddetta cultura d'impresa. E, manco a dirlo, siamo molto, molto indietro...

Una ricerca fatta qualche tempo fa da Eurisko, commissionata da Confindustria e articolata su un campione di associati, di piccoli e medi imprenditori e di cittadini comuni, ha evidenziato che sebbene la cultura d'impresa sia ritenuta fondamentale per la maggioranza della classe dirigente industriale, non lo sia altrettanto nell'immaginario dei cittadini (solo il 38% sa di cosa si parla). Ma il dato a mio parere più allarmante riguarda i piccoli e medi imprenditori: il concetto è chiaro nel 43% del campione, cioè 6 su 10 non ne sanno assolutamente niente. Non credo ci sia da aggiungere molto.

Cultura d'impresa per la maggior parte degli imprenditori significa creatività, innovazione e responsabilità, capacità di integrarsi in modo consapevole nel sistema economico-sociale, capacità di farsi carico di obiettivi altri oltre al profitto; e, manco a dirlo, In Italia, secondo gli intervistati, la politica non aiuta, anzi frena la cultura d'impresa. Dall'analisi Eurisko emerge la convinzione che la cultura d'impresa debba concentrarsi sullo sviluppo dell'azienda, del territorio in cui opera e del Paese più in generale, contribuendo a stimolare il mercato del lavoro e le risorse umane, creando un circolo virtuoso al servizio di clienti e consumatori. Un'impresa rivolta al futuro quindi.

Lo strumento principe della cultura d'impresa è il business plan, quello strumento, cioè che serve per tradurre a livello operativo un'idea in un contesto di business, in un'impresa appunto, che possa operare con profitto sul mercato. Senza scendere troppo nel dettaglio basti pensare che esso contiene informazioni sul mercato, sulle sue tendenze e sulle opportunità. Contiene la descrizione dell'idea, delle strategie per applicarla tenendo conto del contesto stesso e della concorrenza, le persone che la attueranno, i tempi in cui essa sarà sviluppata. Ed altro ancora. Il Business plan è al tempo stesso un documento di sintesi e una bussola, che guida ed orienta l'azione dell'imprenditore.

Il Business plan serve anche per ottenere finanziamenti dalle banche, per poter concretizzare i propri progetti di business. E qui emerge un altro elemento importante, critico. In parallelo le banche infatti dovrebbero sostenere le idee, cosa che oggi fanno assai poco, perché in genere ti danno soldi solo ne hai almeno altrettanti da dare in garanzia. Il problema vero è che l'obiettivo delle banche (come per ogni impresa, in realtà) non è aiutare il cittadino e l'impresa, ma fare profitto, e quindi le strategie discendono a cascata da questa considerazione. Ma così poco lontano si va. È altrettanto vero che le idee devono essere supportate da strumenti operativi, chiari, strutturati e credibili. E ritorniamo al discorso del business plan. Insomma, ognuno deve fare la sua parte.

Altro elemento critico e strategico, la scuola. La scuola, fermi restando (ovviamente) alcuni aspetti fondamentali della cultura di base, che ovviamente sono come le fondamenta per un edificio, non solo va cambiata, ma deve diventare un soggetto dinamico, che cambia in continuazione. Perché se è vero che essa deve preparare a vivere ed agire nel mondo, e il mondo è un divenire continuo, va da sé che la scuola deve fare lo stesso, per non rimanere indietro e sfornare uomini e donne con strumenti culturali e operativi spuntati, inadeguati per agire con efficacia nel mondo reale.

Sfido chiunque a non ammettere che la stragrande maggioranza delle cose insegnate a scuola siano effettivamente inutili nel mondo del lavoro. A parte che secondo gli ultimi dati ci sono moltissimi studenti che manco sanno scrivere in italiano (è una cosa allucinante...), ma addirittura l'università sforna laureati che a livello pratico e operativo spesso non sanno fare assolutamente niente. Il sistema scuola troppo spesso assume la connotazione di un apparato stantìo e autoreferenziale, che insegna tanta accademia e poco pane quotidiano. E hai voglia a dire che si vuole distruggere la scuola, che si preclude il diritto all'istruzione; la scuola è già messa male per conto suo, non gli serve niente. Ma è lì, proprio lì che si deve intervenire. Da un punto di vista strategico è troppo importante. Qualcosa deve cambiare. Per forza. E checché se ne dica, le famose e tanto vituperate tre "i" che professava il Berlusca, informatica (internet), impresa e inglese sono le effettive chiavi di volta della questione.

A dire il vero non siamo messi così bene. La cultura d'impresa, specialmente nelle nostre zone, è un concetto assai esotico. O al limite pura teoria.

Cosa fare? Allora, riepilogando, in estrema sintesi: la aziende sono in crisi, dalla crisi si uscirà gradualmente e non si sa bene come, il settore pubblico non può assumere più, bisogna tirarsi su le maniche, smettere di aspettare non si sa chi che risolva i problemi. Bisogna guardare al mondo con un occhio nuovo, farsi venire idee, strutturarle, mettersi in proprio, ma farlo con metodo e criterio, utilizzando gli strumenti e la cultura dell'impresa. Cercare sbocchi sul mercato, proporre la qualità, darsi da fare. Essere sempre vigili, aggiornarsi, cogliere le opportunità. Ed avere il sostegno delle banche. Solo così ci può essere sviluppo, il resto sono chiacchiere.

E soprattutto, come dice un recente film d'animazione della Disney: Guardare Avanti. Sempre Avanti.

Buon Natale a tutti gli orvietani. Soprattutto a quelli di buona volontà.