opinioni

Da Seneca alla Lorenzetti. Quale innovazione per Orvieto e l'Umbria

mercoledì 24 agosto 2005
di Gianfranco A. Bianchi
Abitiamo da un quarto di secolo in un piccolo podere sotto l'altopiano dell'Alfina, a due passi e alla stessa altitudine del borgo di Benano, visibile dalle nostre finestre. Quando comprammo i quasi quattro ettari dal conte Bracci, la casa colonica era stata abbandonata dal mezzadro già da due anni. La ristrutturammo a fondo e così il cellaio e le stallette. In 25 anni abbiamo messo a dimora 400 piantine donateci dalla Forestale di San Venanzo e altre 200 acquistate nei vivai dell'Orvietano. Ora sono alberi fiorenti, alcuni imponenti, dei quali siamo fieri. Vi abbiamo speso tutti i risparmi di una vita.
Qui, nell'Orvietano, io e mia moglie abbiamo trovato un ambiente sano, gente operosa, reciproco rispetto e simpatia. Questo volevamo.
Le cose sono notevolmente cambiate dai primi del maggio scorso quando si è sparsa la notizia che una variante apportata addirittura d'urgenza al piano regolatore aveva destinato l'area di Benano e l'adiacente altopiano dell'Alfina da zona agricola in zona mineraria. Ma come? Uno dei luoghi più celebrati di questa Umbria pubblicizzata come "cuore verde d'Italia", una ricchezza inestimabile, era stato abbandonato alla industrializzazione di rapina tipica di una economia da tardo medioevo. Ne fummo sconvolti come migliaia di residenti e non. Il vento dell'altopiano sussurrò una notissima canzone: "una mattina, appena alzati, abbiam trovato l'invasor, o bella ciao o bella ciao..."
Lasciamo stare tutto ciò che si è scoperto in questi mesi, a cominciare dal costone montano che sovrasta decine di case e che la Regione, a spese sue e con urgenza reale, qualche anno fa ha consolidato per evitare continue frane; la minaccia alla stessa frazione di Benano di una cava distante solo 300 metri che l'avrebbe cancellata perfino dalla raffigurazione delle frazioni orvietane che troneggiano sulla cornice della sala del Consiglio comunale; la dispersione del terzo bacino imbrifero dell'Umbria ricco di oro bianco conservato secolo dopo secolo appunto dalle "vasche" sotterranee di basalto; i reperti archeologici risalenti agli Etruschi e ai Romani; la perdita delle risorse agricole e turistiche del territorio; almeno 15 famiglie e decine di operai agricoli senza occupazione; la diffusione di polveri apportatrici di silicosi, eccetera eccetera. Da qui, una autentica partecipazione di popolo per chiedere lo stralcio dell'improvvida decisione. Insomma, colui o coloro che hanno avuto la bella pensata evidentemente non sapevano di aprire non una cava ma un capitolo nuovo per tutto l'Orvietano.
Difatti, il dibattito che si è aperto fra amministratori, comitati spontanei di difesa, cittadini elettori e contribuenti, associazioni varie e partiti è approdato alla sostanza del problema. Finalmente si discute e ci si scontra non più sulla sola cava di Benano, che sempre più appare come l'occasione "fortunata" per una presa collettiva di coscienza, bensì sullo stato dell'economia dell'intero comprensorio orvietano. La domanda chiave che emerge è questa: lo sviluppo economico di Orvieto dovrà continuare a poggiarsi su attività da usare con la cautela e la sagacia degli artificieri, oppure dovrà mutare priorità utilizzando le "vocazioni" territoriali come l'agricoltura e il turismo mutandone la qualità e richiamandone altre compatibili con un territorio delicato come un merletto, vero dono giunto a noi grazie a chi ci ha preceduto?
Che vi sia un problema occupazionale nessuno lo nega ma aprire una nuova megacava, è già stato detto e ripetuto, non lo risolve, nemmeno nell'immediato. Tutto sarà peggio di prima perché si tratta di una evidente diseconomia, cioè di una insufficienza economica, di un danno immediato e futuro, che anche il più superficiale economista che non sia un cavatore sconsiglierebbe.
Consideriamo la posizione che finora hanno assunto la CISL e la CGIL orvietani. Dietro una certa rigidità dovuta ad un giusta preoccupazione per l'occupazione, scarsa che sia, è rintracciabile un deciso e comprensibile sconcerto. Il ricatto della occupazione è sempre stato la spada di Brenno messa sulla bilancia dalla industrializzazione devastante, pagato dagli operai e dalle organizzazioni sindacali a caro prezzo. Gli esempi si sprecano, i fanghi rossi della Montecatini, le raffinerie di Priolo a due passi da Siracusa, da Augusta, da Gela, il famoso caso di Severo e i conseguenti allarmi che stanno risuonando di nuovo proprio in questi giorni per la diffusione di nuove statistiche sull'aumento della morbilità di interi agglomerati urbani. Ed è un ricatto tremendo, largamente usato che può mettere i sindacati alle corde, specie nelle aree dove l'occupazione è stata finora imposta in ristretti e pericolosi ambiti produttivi. Ma l'Umbria non è in queste condizioni, non parte affatto dall'anno zero, ha risorse da svelare e può incrementare quelle già conosciute. Come sull'Alfina. Che lì ci sia basalto è noto da millenni. Perché proprio ora? L'Umbria è famosa nel mondo. Orvieto è un nome che si "spende" in tutti i continenti. Che succederà quando comincerà a correre il sospetto che si tratta della capitale europea delle cave?
E poi i tempi stanno cambiando. Quanti giovani sono ora disposti a consumare la loro vita lavorativa come cavatori? Si è aperto nell'economia globale un periodo di competitività sfrenata che si ripercuoterà pesantemente sulla "amministrazione della casa", come i greci antichi chiamavano la economia. La concezione dell'ambiente ha perso definitivamente il significato aristocratico di una volta e sta perdendo anche quello di risorsa da asportare, come dimostra l'intensificarsi della ricerca di materiali sostitutivi degli inerti naturali. Come dimostra la convinzione sempre più diffusa che l'intero globo non può più sopportare l'estrazione di ben 55 miliardi di tonnellate annue di risorse naturali, modificando assetti secolari e influendo anche sullo stesso clima e, come al solito, sfruttando minutamente le aree più arretrate. Questo risulta al SERI, l'Istituto europeo che si occupa di sviluppo sostenibile ( Sustainable Europe Research Institute), il cui Presidente prof. Hinterberger va proclamando: "che ricchezza è se distrugge l'ambiente?"
Anche il sindacato è dunque ad un bivio. Si stanno ripresentando difficoltà per l'occupazione perché i vecchi e addirittura antichi modelli stanno esaurendo la capacità di produrre ricchezza, ma nello stesso tempo si aprono nuove occasioni di sviluppo e di lotta per un mondo migliore, per usare uno slogan di successo. Come fu dopo la guerra di Liberazione con la "non collaborazione", la scissione CISL e la conquista dell'autonomia di tutte le Confederazioni, l'autunno caldo", e la famosa svolta dell'Eur. I sindacati confederali hanno affrontato quelle sfide e per questo sono cresciuti. Ho vissuto quelle giornate e quegli anni, prima come metalmeccanico vero e proprio, poi come cronista sindacale per vari quotidiani e riviste e come storico delle tre Confederazioni sindacali italiane. E senza arrivare a Seneca che duemila anni fa così ammoniva: "pensate sempre alla qualità della vita non alla sua quantità ", ricordiamoci che la materia prima per assicurare un futuro alle nuove generazioni e anche a noi anziani per quel che ci resta, sono le idee e la conoscenza, ferri del mestiere indispensabili per cogliere l'attimo fuggente e trattenerlo. Questa è l'innovazione, parola invocata tre volte dalla Presidente della Regione Umbria nel recente discorso di insediamento.